“I ragazzi hanno fatto un film sul quartiere e sulla loro vita…”. “Un film? Come si chiama?”. “Aspetta, vado a chiederlo a loro, non ricordo…Loro stanno sempre qui…”. Guido si allontana un attimo e torna col titolo:”Manuzza, si chiama Manuzza…Manuzza 1 e Manuzza 2…Un film in due parti…”. Ed aggiunge:”Tipo Gomorra…”.Accende una nuova sigaretta e ride.
Villaseta è un quartiere di case popolari e costruzioni realizzate sul dorso di una altura, esposta a Sud, al mare. A metà strada tra Agrigento e Porto Empedocle, accanto alla vecchia Villaseta, agglomerato un tempo sorto sulla strada che univa Girgenti alla Marina. Un pò di case a destra, un pò a sinistra. La “nuova Villaseta” è altro, tutta un’altra storia. Nacque quando ci fu da dare una casa a chi senza casa era rimasto per la frana dell’estate del’66, frutto di un uso distorto della città e del territorio che avrebbe avuto un seguito nei decenni successivi, fino ad ora, passando da un abusivismo che è entrato nella storia degli scempi del Paese. Villaseta è un luogo separato, ora ci sono i figli e i nipoti di quella gente del Rabato, il quartiere arabo tra i più colpiti dalla frana.
Rabato era quartiere di contadini, le terre da coltivare erano giù, sotto la collina. Da contadini, deportati in un”paese” inventato. Si, paese, perché anche per Guido che ci racconta dei ragazzi e della gente che ci vive, Villaseta è un paese. E’ il tardo pomeriggio, la luce bassa del sole ci guida tra spazi, vicoli, scale e terrazze di quello che era stato pensato come centro commerciale. Con un pò di immaginazione lo si può pensare vivo e vissuto. Del resto pare che questo sia la fotocopia di un centro commerciale di Roma, che non è mai morto. Quello di Villaseta, si, è morto, puzza di non ritorno. Unici segni di vita, un sedicente centro sportivo dove si gioca solo a carte, un altro luogo indefinibile dove pure si gioca a carte, guardati a vista da una statua di san Calogero, il santo nero venerato ad Agrigento. Dono di una donna di Villaseta che da San Calò ebbe una grazia per il marito. Poi, un bar che sforna bottiglie di birra e qualche caffè. Il resto, a parte alcuni murales, uno con Livatino, Borsellino e Falcone,il resto è un sostanziale deserto. Tutto si anima solo a sera, e negli angoli più bui. Le moto sfrecciano come in “Manuzza”, piccoli sporchi affari, come nel corto, qualche malaffare consumato come in “Manuzza”, dove probabilmente si sono usate tinte più forti. Più droga che Stato, partita facile, senza storia. Un deserto. Delle quaranta e più botteghe, solo quel paio di saracinesche aperte. Fino a qualche anno addietro c’era un panificio. Poi ha chiuso anche quello e si è trasferito lì dove inizia la vecchia Villaseta, proprio di fronte alla caserma dei Carabinieri. Curioso, perchè il panificio porta il nome pesante di Messina, il boss di questo”paese” e dell’agrigentino tutto. Lui è morto, il panificio è in amministrazione giudiziaria, ci lavora uno dei figli del vecchio don. Scomparso il vecchio Messina, qui è territorio di un boss di minor calibro, ma che sopperisce al calibro con atteggiamenti di un certo impatto comunicativo, che fa presa su tanti giovani. Tra il nulla e una “parte” da coprotagonista, dicono no al nulla, anche se questo è rischioso. Dei rischi di una vita ai margini, dove è facile ritrovarsi dentro e magari con con accuse pesanti, è testimone Guido, che oggi a Villaseta è un piccolo, prezioso punto di riferimento del bene.
“I ragazzi mi volevano dare una parte in “Manuzza”, ma non ho accettato, volevano che facessi il boss…”.
Scelta di istinto, il bene, per Guido, che lo ha portato tra i Volontari di Strada. Insieme hanno rimesso in piedi uno dei magazzini in disuso, Guido e gli altri curano la sede, si occupano di pulire, hanno ritinteggiato le panchine. Danno da mangiare a decine di famiglie, in tempo di Covid erano sessanta. Non solo da mangiare. Qui manca tutto e mancano tutti. Non c’è un assistente sociale e pure la Chiesa si fa notare più per l’assenza che per la presenza. Qualche anno addietro c’era un prete che si faceva in quattro, poi, uno dietro l’altro alcuni parroci durati tutti pochissimo. Separati dal “paese” e dai suoi bisogni. Ora si guarda con speranza all’arrivo di uno nuovo.
“Speriamo sia come don Sorce…”, dice Marco Vullo, consigliere comunale e animatore dei Volontari di strada.
Villaseta è un deserto che si anima solo alla vigilia del voto. Se si potessero mettere in fila le promesse…Più di seimila persone, un bacino decisivo, che un tempo era fortemente condizionato dal potere mafioso. Oggi, chissà. I voti sono lì, facile giocare su povertà e abbandono, ci vuol poco.
“Eppure qui sono state lotte politiche e civili importanti, con un certo seguito”, ricorda Marco. Quel murales coi tre magistrati è un ricordo sbiadito di quel tempo, alto sulle teste di chi attraversa il lungo corridoio sul quale si affacciano le saracinesche sbarrate, i vetri rotti, le inferriate divelte, le scritte arrabbiate graffiate sulle colonne di cemento dal quale sporge, arrugginito e pericoloso il ferro degli anni e dell’incuria. In quegli anni c’erano bravi dirigenti della sinistra e sindacali, c’era la Chiesa, era il 2008 e il “paese” si fece sentire. Voce chiara, decisa, urlo corale. Poi è cambiato tutto, è cambiata la politica, scomparsi quei dirigenti politici e sindacali che qui avevano un riconoscimento. Villaseta, dunque: più in là le scuole, media, elementare e un asilo continuamente vandalizzato e spogliato. Ogni tanto si deve ricominciare daccapo, come se le buone strade non dovessero avere qui cittadinanza.
Villaseta si sfiora soltanto, con un room del motore dell’auto che attraversa la strada, verso Agrigento, verso il mare. Si sfiora con uno sguardo, il più delle volte infastidito, vista scomoda. La caserma della polizia locale – che prima era qui dentro – ora è stata portata di là della strada. Ma è come se non ci fosse. Tutto tende ad andare via, a scostarsi da Villaseta. Pure la farmacia andò via, scappò. L’autobus passa ogni mezzora quando c’è la scuola, poi ogni ora. La sera niente, non si entra e non si esce se non hai un mezzo proprio.
A Villaseta ii figli di quelli del Rabato, i nipoti, ragazzi della notte, e una umanità in cerca di una corda alla quale aggrapparsi.
Guido fuma, maglietta nera, tatuaggi. Lui pensa a recuperare alimenti da dividere, a coprire le altre, tante, troppe, piccole, diffuse emergenze, come la bolletta da pagare a chi proprio mai ci potrebbe arrivare.
“Abbiamo pure fatto una raccolta per dare sepoltura ad un giovane morto di cuore, improvvisamente. La famiglia aveva solo lacrime per piangerlo… Ci siamo fatti carico noi di trovare quel che serviva per il funerale e per seppellirlo”. A Guido piace raccontare di come ha saputo dare ordine negli slarghi e negli spazi di questo deserto che sulla carta dell’architetto era una bella idea, una proposta di vita comunitaria.
”Ho detto loro, ai giovani, a tutti gli altri, che non potevano, non dovevano sporcare… L’ho detto una prima volta, una seconda, una terza…Poi mi hanno ascoltato…E mi sono venuti incontro quando ho detto loro di aiutarmi a pulire…Sempre pronti ad aiutarmi, a darmi una mano, quando c’è da caricare o scaricare.”
Di giorno. Di sera è “Manuzza”. Ma questa è un’altra storia, e la racconteremo.