di Pepi Burgio
Sfoglio con rimpianto l’autobiografia della ragazza del secolo scorso, e ora che i media ne hanno descritto la personalità, penso che le assonanze, le bizzarre eufonie delle lettere, talvolta annuncino un destino di irresistibile fascinazione. Il carisma di Rossana Rossanda consisteva in primo luogo nell’acutezza del suo intelletto, nella finezza della sua postura, nel filo di perle che dava luce ad una espressione malinconica. L’eleganza della sua voce, lieve e pensosa, comunicava una grazia particolare, severa e austera, di solida origine borghese.
Nell’autobiografia dice di aver capito verso i trent’anni che “una misurata non comunicazione è il cemento degli affetti”; ma, credo che ciò valga tanto nella dimensione privata, familiare, quanto nella passione politica, perché la cura incessante della propria formazione individuale non vada confusa con un’opzione egocentrica.
Fra i vari commenti che in queste ore si incrociano, uno mi ha colpito: Rossana Rossanda incuteva timore in chi le si approssimava. Vero, forse non voluto, ma in ogni caso ispirato ad una cifra pedagogica ottocentesca elegante ed accurata, aliena da ciò che definiva “il farfallume che svolazza intorno alla politica”.
Non ci giurerei, ma a quei pochi che nei prossimi giorni non vorranno confinarla nell’oblio, propongo di riflettere su alcuni suoi frammenti autobiografici. A volo d’uccello: “…non c’è limite a ciò che nascondiamo”; “…abbiamo conservato per decenni consolanti opacità. Siamo maestri del non è colpa mia”; “C’è qualcosa di più banale e straziante che accorgersi delle cose gettate, dei gesti non fatti?”.
È possibile leggere queste affermazioni come stazioni di una Bad Godesberg non avvenuta nel nostro paese, così ostinatamente indisponibile a fare i conti con il proprio passato? Credo proprio di sì.
Che peccato però che la Rossanda se ne sia andata: lei era anche uno stile.