di Vito Bianco
Nel Cigno, uno dei componimenti dei Fiori del male, Charles Baudelaire scrive: “La vecchia Parigi non c’è più (la forma di una città /cambia più in fretta, ahimé! del cuore di un mortale)”. Era la Parigi che il riassetto urbanistco del prefetto Hausmann stava a tal punto cambiando da renderla quasi irriconoscibile. Possiamo, se vogliamo, mettere Palermo al posto della capitale di Francia e far nostro il grido di dolore del critco della “vie moderne”, riandando con nostalgia al tempo ormai quasi mitico in cui le forme avevano un’anima. Poi la corsa veloce verso l’avidità, l’offesa, la distruzione, e un presente incerto e ambiguo, sospeso tra velleità e demagogia, timidi spiragli di ottimismo e mesto ritorno a una rassegnazione atavica. Per provare a decifrarlo mi sono rivolto a Giosuè Calaciura, l’autore di Sgobbo, Bambini e altri animali e Borgo Vecchio, con cui, due anni fa, ha meritatamente vinto il premio intitolato a Paolo Volponi, uno scrittore che secondo me un po’ gli somiglia, e di Il tram di Natale ; tutti, tranne il primo uscito con Dalai editore, edito da Sellerio.
Hai cominciato a fare il giornalista a Palermo, che è la tua città, negli anni Ottanta, mi pare. Com’era quella Palermo e perché hai deciso di lasciarla?
“Era un città che cercava confusamente una strada tutta sua verso la modernità. Ancora si agitavano avanguardie intellettuali e politche che si interrogavano sul destno delle città meridionali, sulle loro peculiarità, sul contributo che il Sud avrebbe potuto offrire al miglioramento di se stesso e degli altri. Una città che ragionava sulla sua componente arcaica, vendicativa e feroce – Cosa Nostra – che sembrava avere confini netti, individuabili. Erano gli anni in cui cedeva la diga dell’omertà, dei primi pentiti e delle “cantate”, del maxiprocesso. Una città che si guardava allo specchio e, forse per la prima volta, si scopriva orribile e senza giustzia. Non molti lo intuirono. In quegli anni avremmo dovuto capire come il pensiero mafioso, ben al di là dei gruppi di fuoco, delle lupare, delle “cupole”, dei padrini e delle collusioni fosse diventata la filosofia del potere a Palermo, il modello su cui costruire obbedienza e consenso da un lato, grettezza e violenza isttuzionale dall’altro”.
E così decidi di andartene. Quando?
“ Alla fine degli anni ’90, dopo la chiusura del giornale L’Ora dove lavoravo e alcuni espedienti per sopravvivere in una città dove il lavoro intellettuale veniva somministrato a piccole dosi e solo per alcuni prescelti che garantivano affidabilità e fedeltà. Gli anni in cui la macchina del consenso orlandiano sperimentava se stessa e la formidabile capacità di eliminare ogni dissenso”.
Cominci a scrivere narratva per una vocazione che prescinde dal giornalismo o perché ti rendi conto dei suoi limiti, che col passare del tempo sempre più diventano i limiti oggettivi della professione, dei giornali?
“Comincio a scrivere quando a Palermo si esaurisce la libertà di stampa e contemporaneamente il giornalismo diventa autoreferenziale, comincia a raccontare se stesso in una formula antimafiosa innocua e ripettva, creando una propria mitologia di eroi e tacendo della quotdiana tragedia di vivere nella città dei privilegi, senza lavoro e senza alcun diritto di cittadinanza. Il mio primo romanzo Malacarne nasce proprio in quegli anni, quando il silenzio dei media è diventato assordante”.
Vivi a Roma ma torni spesso a Palermo. Hai, credo, una relazione affettiva, “sentimentale” con la città che però non ti impedisce uno sguardo lucido, distaccato. Come giudichi il suo presente e quale futuro temi o speri?
“Ho già scritto che considero fallimentare e tristemente conservatrice l’esperienza di Leoluca Orlando così a lungo sindaco di Palermo. Non solo per l’inqualificabile amministrazione del territorio che trovo assolutamente assimilabile – in peggio – alla tradizione della Dc a Palermo. Rimprovero a questo sindaco di avere apparecchiato la città al festino dei peggiori. Con la sua superficialità democratica ha aperto la strada a fascisti e xenofobi che, proprio per i ritardi della sua sindacatura, per la necessità di defilarsi da ogni ipotesi efficace di modernità credibile, troveranno spazio e agibilità. Ho pochissime speranze che questo non accada. Il silenzio delle voci critche – al limite dell’inesistenza – e l’ambigua subcultura orlandiana che ha spinto verso i consumi acritci del “mordi e fuggi” fanno intravedere il peggio. In più la città sembra svuotata di librerie. Pochissimi i negozi di musica. Si legge a stento e moltssimi ragazzi abbandonano la scuola. Una città che non cresce, bloccata, che si consola con i numeri volubili del turismo, oscena di immondizia, priva di ogni manutenzione e cura. Sembra che sulla nave Palermo sia stato lanciato il definitvo “si salvi chi può”. Ovvero i soliti”.
La scelta di raccontare i margini della città, quella brutta e cattiva, e di contro i bambini è stata istintva o, al contrario, meditata, per così dire ‘politca’?
“Non racconto più Palermo. Tento di scrivere di una mia patria interiore che ha caratteri più universali. Certo c’è Palermo. Una mia immaginazione della città dove sono cresciuto ma adesso separata dalla Palermo reale per stanchezza e assenza di speranze. Palermo ha prosciugato la sua linfa mitica, corre verso la peggiore omologazione. Incapace di dare voce alla sua stessa difficoltà di vivere cerca catarsi e inutli conferme di splendore nel suo passato gattopardesco o imprenditoriale o nella giallistca più rassicurante. Una città infelice che non sa cantarsi né immaginarsi diversa. L’ingiustzia e i privilegi per pochi sono così impastati alle pietre e alla polvere di Palermo che non c’è altro materiale per raccontarla. E con la scomparsa delle voci poetiche di Franco Scaldati e Michele Perriera è venuta meno la possibilità di leggere la città attraverso la metafora. Insomma, una città che non è né brutta né cattiva. Soltanto non è più. Ho scelto di raccontare esclusi e bambini perché rappresentavano una resistenza fisiologica al nulla amorfo e globale che è ormai in ogni città e quartiere. Ma anche quest’ultma resistenza sembra crollata”
La tua è una lingua movimentata, lirica, molto connotata, che sembra spesso sul punto di rompere gli argini della sintassi. C’è un rapporto di necessità tra questa temperatura stilistca e la materia che affronti?
“Penso di sì. Anche se la mia scrittura adesso è in cerca di maggiore chiarezza e semplicità senza però rinunciare alla ricerca della profondità linguistca. Sintassi e canoni sono necessari. Più vengono frequentati e assimilati più si è in grado di sovvertrli. Ma penso che non smetterò di piegare la prosa verso la poesia, verso il suo mistero narratvo, il cortocircuito fulminante tra pensiero e forma.
Chi sono, se ci sono, secondo te, gli scrittori che hanno meglio raccontato Palermo e la Sicilia? E a chi di loro ti sent più vicino?
“Non è palermitano, ma amo Verga e la sua faticosa, dolorosa odissea tra i Vinti”.
foto di Tano Siracusa