di Vito Bianco
Se ne stanno in un angolo di piazza Gramsci, davanti all’ingresso di una banca, proprio nel punto in cui comincia via Garibaldi, una via lastricata del centro di bar, negozi di mobili, un supermercato Coop, all’ingresso del quale lo scorso aprile andavo a fare la fila con la mascherina e i guanti, e un meccanico di biciclette, un mezzo di trasporto molto usato da queste parti, da uomini e donne di ogni età e condizione sociale. Il gazebo è biancoceleste ed è dominato da un grande poster con il faccione sorridente di Matteo Salvini e la scritta “Processate anche me”, la provocazione difensiva che puntava a creare uno schieramento di massa a favore di un leader piuttosto aggressivo che però ora, dopo i risultati delle regionali venete, mostra i segni di un evidente appannamento, che il ragazzone abituato a comandare cerca di nascondere battendo sul solito logoro tasto, la presunta invasione dei migranti, con la variante dello straniero portatore del virus. Ogni volta che li vedo sono tentato di avvicinarmi fingendomi dei loro, per farli parlare e sentire cosa dicono quando si sanno al sicuro tra sodali, tra credenti della stessa fede; ma non l’ho ancora fatto e probabilmente non lo farò mai, anche se non è mai detta l’ultima parola. Comunque , penso, so dove trovarli, conosco l’indirizzo della sezione cittadina del partito, se dovessi decidermi è lì che potrei più comodamente fare il fantasticato esperimento giornalistico L’anno scorso la Lega ha vinto le elezioni comunali e da allora amministrano Cinisello Balsamo con la sordina, cercando di farsi notare il meno possibile, diversamente dai colleghi dai colleghi di Ferrara, per dire, o di Sesto San Giovanni, dove hanno provato a fermare la programmata costruzione della moschea e però contemporaneamente promuovono l’ambizioso progetto di riconversione dell’area Falck. Una piccola stonatura solo all’inizio, un errore da principianti, si potrebbe dire, l’assessore al ramo che dice una frase fuori luogo sui libri scelti da un gruppo di lettura che da anni si riunisce per leggere e discutere in un locale della bella e luminosa Biblioteca/Centro culturale intitolata al socialista Sandro Pertini.
Ma insomma, viene da dire, tra Gramsci, Garibaldi, Pertini, Marisa Musu e le altre vie dedicate ai partigiani caduti nella lotta contro il nazifascismo cosa c’entra qui la Lega? E a Sesto, la città gemella che ha un viale Stalingrado che in diversi punti confina e si fonde con Cinisello, cosa c’entra? Nulla, sembrerebbe, ma negli anni la propaganda leghista, ossessiva e capillare da un lato, e la progressiva sparizione dei presidi della sinistra storica, in primis gli eredi sempre più labili e omologati del Pci, dall’altro hanno cambiato il rapporto di forze, spostato a destra gli equilibri politici, mutato il rapporto di identificazione e fiducia tra la classe operaia, la piccola borghesia e le organizzazioni che per decenni, a partire dagli anni ’60, ne erano state i riferimenti ideali e politici Non aveva tutti i torti D’Alema quando, qualche anno fa, disse che la Lega (allora di Umberto Bossi) era una costola della sinistra; ma una costola formata dagli arrabbiati e delusi, dai molti che, sentendosi abbandonati nel bel mezzo di una crisi epocale che investiva l’intero occidente postindustriale, sceglievano un partito che a quella rabbia, disperazione e paura (l’invasione nera), alimentate ad arte, dava risposte semplici – troppo semplici -, ma che avevano l’illusorio pregio di essere rassicuranti e a portata di mano.
Noi siamo arrivati nel 2015, l’anno fatidico dell’Expo, la grande fiera internazionale che, a conti fatti, si è rivelata un’occasione sprecata; questo per dire che anche la proverbiale lucidità programmatica del Nord qualche volta fallisce il colpo, sparando a vuoto. Prima è partita Antonella, a novembre, di corsa perché non c’era tempo, chiamata per una supplenza; poi io, a febbraio, in pieno gelido inverno, dopo aver portato a termine un trasloco caotico e faticoso, abitando per tre settimane una casa che si andava lentamente svuotando ma dove le cose e i libri da inscatolare sembrava non dovessero mai finire. Io salgo sulla nave una sera di pioggia forte, con due valige e uno zaino con qualche libro, tra cui uno mio uscito tre giorni prima dalla tipografia. Dalla banchina del porto guardo le ultime case di via Crispi, semi invisibili per la cortina d’acqua e mi dico che devo essere contento di lasciare una città, Palermo, scontrosa e anarchica, con gli automobilisti che spostano di peso i vasi di cemento per attraversare una piazza chiusa al traffico e la spazzatura che deborda dai cassonetti incrostati e si accumula in montagnole o si sparge liberamente ai bordi della strade, per non dire delle discariche abusive, eterne e ineliminabili, contro cui il sindaco Orlando ha da poco lanciato l’ennesima mobilitazione con annesso deterrente della videosorveglianza.Ma trapiantarsi in una anonima cittadina della cintura milanese, sarà facile? Spero di sì, ma la ragione ribatte con inequivocabili note di pessimismo. Alla Stazione centrale mi aspetta un amico, figlio di siciliani di Catania ma nato e cresciuto a Milano, o meglio, in uno dei mille piccoli comuni che fanno corona al capoluogo, dove vanno a vivere molti che vi si recano quotidianamente per lavoro per via degli affitti più abbordabili.
Percorriamo in macchina viale Fulvio Testi, dove una volta si trovava la redazione milanese dell’ Unità , e alla fine del vialone che verso la fine diventa uno scorrimento veloce a doppia corsia entriamo a Cinisello Balsamo, un fronte largo di palazzine di pochi piani, che comunica l’impressione di un agglomerato urbano privo di connotati subito riconoscibili, simile ad altri cresciuti attorno al polo industriale di Sesto soprattutto nel secondo dopoguerra e poi negli anni della grande diaspora interna che ha portato al Nord milioni di lavoratori meridionali. Una via – via Libertà – che divide in due l’abitato e si allunga in direzione Varese con altri due nomi sino al confine con Paderno Dugnano e la vista della Alpi innevate che sembrano vicinissime; la piazza rettangolare con un rialzo di cemento con alberi di media statura e panchine già vecchie, la chiesa del XVII secolo con un sagrato insolitamente largo; una trasparente Biblioteca in vetrocemento che fa vedere i libri anche a chi sta fuori, una “villa di delizia”, villa Ghirlanda Silva, come venivano chiamate le dimore di campagna del Seicento che gli aristocratici si facevano costruire per passare al fresco i mesi caldi: è questo che vedo il giorno dopo l’arrivo, e poco altro anche nei giorni successivi, più interessato ad annusare l’aria diversa e fredda, ad origliare l’accento nuovo nei bar e a perlustrare gli scaffali della biblioteca o a guardare incantato da dietro una parete di vetro la neve che cade e imbianca un grande abete dalla forma bizzarra e un po’ inquietante.
Col passare del tempo, com’era inevitabile, le cose attorno e le facce e le inflessioni hanno perso a poco a poco l’aura estranea della distanza e sono diventate familiari. E abbiamo persino scoperto che l’indubbio civismo lombardo ha delle crepe, che alcuni orgogliosi lombardi attribuiscono al gene sudista delle generazioni figlie dei migranti degli anni del boom , o ai nuovi immigrati dai Paesi mediorientali o del Sudamerica, o ai cinesi che a Milano e in tutta la cintura hanno dato vita a una storica e solida comunità occupata per lo più nella gestione di bar e ristoranti ma anche di sartorie e negozi di parrucchiere, gente alacre e sorridente che si fa apprezzare e volere bene. Anche il senza fissa dimora scontroso e talvolta ubriaco che si vede in giro tra i portici di via Frova e i dintorni del Pertini è lo stesso di quando siamo arrivati in via 4 novembre, come noi invecchiato di un lustro. Oggi è sabato, e in attesa che “la lilla” aggiunga tre fermate a quelle già disponibili e che tornino i giostrai e la pista di ghiaccio, pedalo piano fino a Cusano Milanino, paesetto ameno di tigli, platani e villette liberty, dove Alessandro Robecchi, scrittore milanese e polemista arguto, ha “girato” una scena non decisiva di Cerchi nell’acqua, il suo ultimo giallo con il morto. Quando torno evito di ripassare da piazza Gramsci, per non rivedere la faccia da impunito dell’ex ministro, ma mi dispiace, perché a quest’ora del pomeriggio ci sono bambini di tutti i colori che fanno chiasso allegro e giocano a rincorrersi. Anche questo non è cambiato, in cinque anni. Ma forse i bambini non sono gli stessi. A quell’età, si sa, crescono in fretta.