di Guido Ruotolo
Un viaggio nel presente e a ritroso, per leggere e rileggere quello che viviamo e quello che abbiamo vissuto in trent’anni di migrazioni. Dalla Campania alla Puglia di oggi, a quella che visse l’incredibile ondata di albanesi, ricordo sbiadito che è giusto riprendere, per capire. Un viaggio che racconterà anche la Libia, dove tutto inizia e si consuma, dove spesso finisce tragicamente il calvario che porta uomini, donne e bambini sulla sponda del Mediterraneo dall’Africa più povera e disperata. Lo facciamo con Guido Ruotolo che per BAC BAC apre i suoi appunti di viaggio. Questa prima parte, sull’asse Campania-Puglia. Nelle prossime settimane altri capitoli, altre pagine del racconto.
Guardo al mio passato cercando un viaggio, una storia da ricordare, anzi la storia, ma riaffiorano invece immagini e scene che alla fine compongono non uno ma il viaggio della mia vita.
Se dovessi proporre il primo fermo immagine di questo film, dovrei raccontare di un un cortile di una palazzina mal costruita, non finita. È la sera del 25 agosto del 1989. Villa Literno, buco nero della provincia violentata di Caserta. Jerry Masslo, l’unico, il primo rifugiato politico vittima dell’apartheid nel Sudafrica che ancora non assaporava la libertà di Nelson Mandela, viene ammazzato nel corso di una rapina.
Anche allora quella terra, che sarebbe poi diventata “Gomorra” grazie a Roberto Saviano, era frequentata da congolesi, kenioti, senegalesi. Ognuno di loro portava nel proprio bagaglio storie di guerre etniche, di povertà ma anche bisogno di conoscere e studiare in quella che è stata, l’Italia, culla di civiltà per intere generazioni di africani e mediorientali, attratti da facoltà universitarie come quelle di Firenze e soprattutto Perugia.
Noi avevamo ereditato, in quegli anni, gli ultimi sussulti di quella stagione terzomondista che si respirava a Parigi e che, negli anni Settanta, aveva visto crollare in Africa gli ultimi regimi di un colonialismo ormai antistorico mentre diventava sempre più di attualità la questione mediorientale.
Arrivava da noi anche quella che poi sarebbe diventata la nuova classe dirigente dei paesi africani, e si ritrovava mischiata al sottoproletariato maghrebino che spacciava droga in quel “buco nero” di Castelvolturno, Villa Literno, la terra dei “Mazzoni”, nel casertano, Campania, per la raccolta del pomodoro prima di trasferirsi, a settembre, in Trentino a raccogliere le mele o a tagliare l’uva.
Ricordo la branda di Jerry Masslo, quell’odore di polvere e sporco, di sangue. E gli occhi di paura di quel popolo di schiavi che non aveva ancora perso la speranza di costruirsi un futuro diverso.
E la Caritas e i giovani volontari che caparbiamente cercavano di contaminare la cultura di una sinistra antica con la nuova globalizzazione segnata dal flusso migratorio che stava per invadere il vecchio Continente.
Facevano paura le stradine e le campagne di Villa Literno. I camorristi spesso rapinavano i braccianti clandestini. Dopo il massacro di Jerry Masslo ci fu anche il primo sciopero dei neri.
Diciotto anni dopo, a Castelvolturno, un gruppo di camorristi “scoppiati” guidati dal superkiller Giuseppe Setola, mise a segno la più grave strage di neri: otto morti.
In una intervista a Nonsolonero di Rai due, Jerry Masslo aveva lanciato un grido preoccupante sulla condizione dei neri: «Avere la pelle nera in questo paese è un limite alla convivenza civile. Il razzismo è anche qui. Noi del terzo mondo stiamo contribuendo allo sviluppo del vostro paese, ma sembra che ciò non abbia alcun peso. Prima o poi qualcuno di noi verrà ammazzato e allora ci si accorgerà che esistiamo».
Profetico, il rifugiato sudafricano. In quelle settimane di Jerry Masslo Villa Literno stava per esplodere sui media internazionali. Io già la frequentavo da tempo e stavo per abbandonarla seguendo i flussi migratori diretti in Puglia. Conoscevo la rotonda «degli schiavi», dove dalle cinque del mattino stazionavano grappoli di “neri” in cerca di ingaggi.
Arrivavano i “pulmanini” che li caricavano come sardine per andare a raccogliere i pomodori o per essere portati a lavorare in qualche cantiere edile.
Che strano, dieci anni dopo, o poco più, nel 2002, quella rotonda mi parve di rivederla nella Tripoli di Muammar Gheddafi. Alla periferia della capitale della Libia, decine di ragazzi aspettavano un qualche lavoro per accumulare quanto serviva per intraprendere la traversata del Mediterraneo, per arrivare a Lampedusa.
Li seguivo, i “neri”, con cui ho condiviso gran parte del mio impegno professionale, e dunque della mia vita.
L’Italia si accorse quell’estate dell’omicidio di Jerry Masslo, dell’esistenza di “Mama Africa”, una immensa Soweto tra Napoli e Caserta, sul litorale domizio.
C’erano i Casalesi che dominavano quei territori. I neri e i maghrebini erano manovalanza per lo spaccio di droga, i nigeriani invece corrieri della droga, portavano la “polvere bianca”, gli ovuli, nei preservativi che si infilavano nel retto. E gestivano la prostituzione dovendo pagare ai Casalesi l’affitto del suolo per consentire alle ragazze di “lavorare”.
Solo quando Gomorra è stata sconfitta i clan della mafia nigeriana sono diventati i padroni del territorio, dei traffici criminali nel “buco nero” di Castelvolturno, Villa Literno.
Il viaggio che avevo intrapreso quell’estate del 1989 mi portò un anno dopo nella rossa Cerignola. La Capitanata, il tavoliere delle Puglie, il granaio d’Italia. Che brutta che era Cerignola la rossa, senza un decente piano regolatore, case popolari degradate e tanto disordine.
Aveva dato i natali al dirigente del movimento operaio e contadino, al fondatore della Cgil, Giuseppe Di Vittorio, e in quegli anni Novanta finì nelle mani della destra eleggendo a sindaco il fratello di Pinuccio Tatarella.
Erano gli anni dell’assalto feroce di una criminalità spietata, specializzata nelle rapine dei blindati dei portavalori, sulle autostrade, soprattutto al Nord. Nei tendoni dell’uva tagliati per farsi pagare le estorsioni. E anche i commercianti erano vittime delle estorsioni.
Attraverso i mediatori caporali, i cerignolesi controllavano la mano d’opera. In quegli anni rubarono persino l’auto del vescovo di Cerignola.
C’erano le leghe bracciantili che tentavano di arginare lo strapotere criminale. Ma un giorno accadde quello che ha segnato tutta la mia vita.
Allora lavoravo per “il manifesto”. E si stava per aprire tra Cerignola e Orta Nova un campeggio di solidarietà dell’Arci, Nonsolo nero, l’Associazione Nelson Mandela e la Fgci di Puglia e Molise.
Era luglio-agosto del 1990. Il campeggio di solidarietà che avrebbe dovuto aprire in quei giorni, avrebbe ospitato i ragazzi neri. Arrivo a Cerignola di pomeriggio. Incontro uno degli organizzatori del campeggio, Leandro Limoccia. Siamo seduti a un bar del corso principale e accade qualcosa di terribile.
Strano silenzio. Nessun rumore o urla. Solo suoni sordi di oggetti che precipitano sull’asfalto, sulle mattonelle dei marciapiedi larghi. Panchine divelte, laminati di alluminio di cartelloni pubblicitari, pietre di tutte le dimensioni.
Una trentina di neri, senegalesi soprattutto, correvano verso di noi inseguiti da una folla inferocita di braccianti. Io e Leandro ci ritrovammo nel gruppo di senegalesi che si fermarono in un angolo della piazza centrale. Si presentarono dei vigili urbani che improvvisarono un cordone.
Non era razzismo, quello. Almeno non lo era allora. I braccianti sindacalizzati della Cgil, soprattutto, non sopportavano la presenza dei clandestini che minavano le conquiste sindacali. Le leghe bracciantili strappavano accordi con le associazioni dei proprietari delle aziende agricole fissando i salari giornalieri e il costo del trasporto. Accordi rivoluzionari per combattere il caporalato.
I braccianti clandestini venivano portati dai loro caporali egiziani o maghrebini nelle aziende e venivano pagati a cottimo.
Dunque rompevano gli equilibri del mercato favorendo oggettivamente gli interessi criminali nel mondo delle campagne. Certo c’era anche un disagio sociale nei comuni della Capitanata, come Orta Nova o Stornarella. Perché i braccianti vivevano accampati nelle campagne e i paesi non avevano servizi pubblici o centri di assistenza. E la sera le stradine venivano occupate dai clandestini, che magari si ubriacavano di birra rappresentando un “pericolo” per le ragazze del paese. E facevano i loro bisogni dove capitava, all’aperto.
Leandro conosceva la Cerignola istituzionale. Proprio dietro la piazza dove una folla di braccianti minacciava una trentina di senegalesi, c’era la camera del lavoro, la Cgil. Era tardi e la sede era chiusa. Riuscimmo a reclutare un compagno che aveva le chiavi e finalmente riuscimmo a trasferire gli aggrediti.
Più tardi, era ormai buio, con le nostre due macchine, io e Leandro facemmo la spola per evacuare la sede sindacale portando i senegalesi al campo di solidarietà allestito fuori Cerignola, e che stava per essere inaugurato in quei giorni.
Io e Leandro portammo in salvo quei braccianti.
Indimenticabili, di quella esperienza, sono una immagine e una emozione che ancora oggi, trent’anni dopo, rivivo commosso. Il titolo in prima pagina del Manifesto alla mia cronaca fu molto netto: «I mazzieri di Cerignola». I capi lega della Cgil spiccarono un diffida nei miei confronti. Cerignola per me era diventata zona off limits. Ricordo che il segretario confederale nazionale della Cgil, Fausto Bertinotti, riuscì a far annullare la “fatwa” nei miei confronti.
Ma quelle che più hanno segnato la mia vita sono state le parole di un senegalese nel viaggio-fuga verso il campo di solidarietà fuori Cerignola. Era un ragazzo carismatico, doveva essere un imam, capo della comunità dei senegalesi. Ruppe il silenzio: «Je vous remerciez». «La ringrazio». Balbettai commosso: «Non ringraziarmi. Sono io che devo chiederti scusa per quello che avete subito».
Puglia generosa. Meriterebbe una medaglia al valore civile per quello che ha fatto.