foto e testo di Lucia Zullo
Un pomeriggio di fine marzo 2019 entro per la prima volta in un manicomio, l’Hospital Interdisciplinario Psicoasistencial Josè Tiburcio Borda di Buenos Aires, più comunemente noto come “El Borda”. E’ l’ospedale psichiatrico più importante della città ma è anche molto famoso. A renderlo tale non è la grandezza della struttura, né l’alto numero dei suoi internati, ma il fatto che il suo cortile ospita la sede di “Radio La Colifata”, un’emittente particolare perché a gestirla sono i pazienti e gli ex pazienti dell’ospedale. Nel 1991, Alfredo Olivera, specializzando in Psichiatria, decide di sperimentare una cura totalmente diversa rispetto all’usuale terapia farmacologica, pensa al coinvolgimento degli ospiti del manicomio nella gestione di una radio. Mentre i farmaci relegavano i pazienti alla reclusione sociale ed affettiva, attraverso i programmi radiofonici i protagonisti avevano la possibilità di riacquistare la libertà ed instaurare un legame diretto con i radioascoltatori, stabilendo un contatto con il mondo esterno dal quale erano esclusi.
Se la struttura dall’esterno appare imponente e severa, attraversare i lunghissimi corridoi vuoti e silenziosi mette davvero ansia. Cancelli e sbarre, qualche porta si apre su sale arredate solo da panche bianche colorate dalla ruggine. Spazi deserti, ma la mente mi riporta inevitabilmente le immagini del libro “Morire di classe” in cui le intense foto in bianco e nero di Carla Cerati e Berengo Gardin raccontano la condizione manicomiale in Italia alla fine degli anni 60. La sua pubblicazione, con i testi di Franco Basaglia che denunciavano le condizioni di vita e non vita dei malati, ha scosso l’Italia e ha rappresentato un momento memorabile nella storia dei movimenti antipsichiatrici.
Uscire nel cortile è una liberazione, è come tornare dal bianco e nero al colore. Il parco non è curato ma ci sono molti alberi con tronchi vigorosi e chiome verdi brillanti, i muri degli edifici sono scrostati ma sono illuminati dai colori vivaci di alcuni murales e il sole dei primi giorni di autunno riscalda. Nei vialetti del cortile intravedo finalmente qualche persona, sono tutti uomini e ognuno cammina da solo. Non riesco a incrociare i loro sguardi, qualcuno mantiene forzatamente gli occhi bassi. Mi sento a disagio, so di essere un’estranea e non so come interagire.
Un cane arruffato avanza scodinzolando piano verso un uomo che lo guarda dolcemente. Mi avvicino anch’io, accarezzo il cane e sorrido all’uomo che ricambia il sorriso. Accarezzare insieme quel pelo ispido ci ha messo in contatto.
Ora, come se avessi passato un esame, vedo qualcun altro avvicinarsi piano piano almeno con un atteggiamento curioso se non proprio amichevole. Mi presento parlando in italiano e ottengo un insperato successo, ognuno di loro ha qualche legame diretto o indiretto con l’Italia e molte facce si aprono al sorriso. Guardano la macchina fotografica, mi chiedono se sono una giornalista e, quando spiego che sono solo una che ama ricordare e raccontare con le fotografie, accettano di posare per me. Come in un gioco, chiedo loro di scegliere dove e come farsi fotografare e ognuno con la sua scelta racconta qualcosa di sé.
Chiedo di accompagnarmi là dove trasmette la loro radio, andiamo insieme e con noi il cane.
Nel dialetto lunfardo, quello parlato dai porteños, gli abitanti dei bassifondi argentini, colifato significa matto. Da oltre 30 anni i “colifatos” con la loro radio dall’interno del Borda dialogano con il mondo di attualità, cultura, politica e musica e io sono qui per conoscere questa realtà. Ogni sabato pomeriggio, una trentina di internati o ex internati e alcuni operatori si incontrano nello spazio aperto del giardino, con le sedie a semicerchio, senza alcuna differenza tra il pubblico e chi fa la radio, perché la radio è nel semicerchio e ognuno può avere il suo programma. La regola è che, nel momento in cui si apre il microfono, qualsiasi persona può partecipare alla trasmissione. La scaletta spazia dallo sport, all’arte, alla politica, alle esperienze personali, ma si parla anche delle condizioni dei pazienti nell’istituto e cosa accade di loro una volta dimessi. Un paziente che si occupa di sport alla domenica va allo stadio accreditato come giornalista. L’esperienza di Radio La Colifata è conosciuta nel mondo. Manu Chao ha preso parte ad alcuni programmi della radio e, affascinato da questi ragazzi, ha chiesto a tre di loro di partecipare a un videoclip diretto da Emir Kusturica e anche il regista Francis Ford Coppola ha voluto inserire in un suo film alcune scene dalla Colifata.
Ed eccola finalmente Radio La Colifata! Davanti ad un muro di cemento per metà coperto da un mosaico colorato, basta un computer, alcuni microfoni e l’amplificatore appoggiati su un tavolino di formica a fare questa meravigliosa realtà. Le sedie di plastica bianca a semicerchio e, tutti quelli che ne hanno voglia, hanno diritto di parola.
C’è allegria, ognuno ha voglia di raccontarsi. Mi passano il microfono chiedendomi di presentarmi: “Sono Lucia, sono italiana. Sono qui perché ho letto della Colifata e della vostra lotta. Sono contenta di avervi incontrati, vi ringrazio per avermi accolta. Quando vi ascolterò dall’Italia so che saremo ancora insieme. Grazie.” Parte lo stacco musicale, intanto su una lavagna vengono annotati i brani musicali richiesti e tra Luis Miguel e Mercedes Sosa spicca anche Rita Pavone.
Mi guardo intorno. Un murales sul muro di un caseggiato dietro la consolle attira la mia attenzione. Mi avvicino. Una lunga serie di sagome con caschi neri dietro lo scudo azzurro della polizia, qualcuno ha il fucile, agenti che picchiano con manganelli. La sagoma bianca di un uomo bersaglio della polizia e la scritta “Nunca mas”, mai più. Dietro di me si sono avvicinati Gabry e Julio. Lei è una donna dall’età indefinibile, le treccine bionde e le scarpe basse con il laccio alle caviglie le danno un’aria da bambina. Lui, barba e capelli brizzolati, lo sguardo nascosto dietro grandi occhiali neri, ha la postura di chi, da molto tempo, porta sulle spalle un grande peso.
Chiedo di spiegarmi quel murales e Julio parla e racconta. Quel giorno lui c’era perché lui vive nel Borda da 39 anni. Parla dell’assalto poliziesco, di cariche indiscriminate, di gas lacrimogeni e feriti da pallottole di gomma dentro le corsie dell’ospedale. Ricorda le infermiere ferite e gli altri pazienti e i giornalisti colpiti dagli spray urticanti. Parla della paura e della rabbia.
Quella che ascolto è la storia di uno dei tanti tentativi di speculazione che questo territorio ha subito. Il 25 aprile del 2013 l’allora sindaco di Buenos Aires, Mauricio Macrì, ha mandato dentro l’ospedale 300 poliziotti con i blindati per portare avanti con forza il suo progetto, ovvero quello di liquidare l’Ospedale Neuropsichiatrico Borda (e altri nell’area sud della città). Una durissima risposta alla resistenza pacifica che medici, operatori sociali e pazienti opponevano allo sfratto. Ci sono stati 9 arresti, tra loro due responsabili del reparto ospedaliero, liberati nel pomeriggio del 26 aprile. Un pomeriggio ben poco segnato da una condizione di “salute mentale”, sono state infatti aggredite dalla polizia anche diverse infermiere, vari pazienti e giornalisti. Ci sono stati oltre 30 feriti, colpiti a distanza ravvicinata da proiettili di gomma e da lacrimogeni per difendere un progetto legato alle speculazioni edilizie a danno dei settori più vulnerabili della società.
Gabry sta zitta, ma si avvicina al murales e si appiattisce sulla sagoma bianca: la vittima. Questo è il suo racconto e, senza dire altro, si allontana.
Alla repressione però la comunità del Borda ha reagito organizzando assemblee, laboratori, arte e musica, ottenendo una partecipazione senza precedenti nella lotta contro la privatizzazione della salute pubblica. «Hasta que los muros caigan», fino a quando i muri cadranno. Muri fisici e muri psicologici ce ne sono molti e non soltanto tra sani e malati, tra cosiddetti «normali» e cosiddetti «matti». L’incredibile esperienza di Radio La Colifata ha fatto breccia. Ha portato frutti e anche seminato. Oggi, in giro per il mondo, ci sono molte esperienze che si rifanno alla radio nata nell’ospedale Borda di Buenos Aires. Una scommessa pazza. Una scommessa vinta.
Julio resta. Sembra chiuso nei suoi pensieri, protetto dagli occhiali scuri. Con timore azzardo a chiedergli : “39 anni qui?”. “Si”, mi risponde, “sin ninguna razon”, senza alcun motivo.
Aveva 19 anni quando una mattina è stato prelevato dalla polizia per strada e rinchiuso, senza accuse specifiche, nel Borda che durante gli anni della dittatura fu utilizzato come centro clandestino di detenzione degli oppositori politici. Nessuna possibilità di comunicare con l’esterno, nessuna possibilità di aiuto. Desaparecido per il mondo. Era uno studente, era giovane e questo bastava nell’Argentina di quegli anni a farne un probabile sovversivo, penso io. Ma il racconto che Julio continua a fare è diverso. Era morta da poco sua madre e la denuncia contro di lui è arrivata da un fratellastro militare e dal suo patrigno che volevano cancellarlo dalla famiglia e ci sono riusciti. Sono incredula. “Come è possibile? Ma ci sarà stata una visita medica, un colloquio per accertare il tuo stato”, la sua risposta è un sorriso tagliente. Domande stupide le mie, mi rendo conto. Sotto una dittatura i diritti umani vengono cancellati, quello che è successo in Argentina tra il 1976 e il 1983 fa gelare il sangue nelle vene. “E poi, finita la dittatura?”, insisto perché non riesco ad arrendermi all’assurdo di un’ingiustizia così grande. Risponde lentamente, in modo che io possa capire il suo spagnolo: “Per me non è cambiato niente. Ero e sono solo, non ho un lavoro e ormai sono malato, questa è la mia casa”. Un macigno. Una grande pena per Julio, tanta rabbia e senso di impotenza.
Si avvicina Carlos un amico più giovane, insieme vogliono accompagnarmi alla palazzina 19, quella che Macri voleva abbattere. Camminiamo nel parco, nonostante tutto c’è un senso di pace. Tra le fronde degli alberi appare una grande statua di marmo che il tempo ha colorato di muschi e fungh, è una Pietà. “Anche questo Cristo ha una gamba troncata” dice Julio mettendosi sotto la statua e chiedendomi una foto.
Oggi, un anno e mezzo dopo la mia visita a Buenos Aires, preoccupata dalla pandemia che ha colpito tutto il mondo, ho cercato e trovato in rete queste notizie sull’attuale situazione nell’ospedale del Borda: “Contemporaneamente all’adozione delle misure di contenimento su scala nazionale, l’ospedale psichiatrico maschile José T. Borda di Buenos Aires ha limitato i collegamenti tra l’interno e l’esterno della struttura, sospendendo le visite e i permessi di uscita dei pazienti. Inoltre, sono state sospese tutte le attività socio-culturali ed economiche che avevano luogo all’interno di questi spazi. Nonostante questa chiusura, Radio La Colifata ha deciso di portare avanti il suo lavoro da remoto, attraverso collegamenti telefonici tra i partecipanti e i pochissimi telefoni degli internati”.
“Somos los únicos locos con antena”: radio La Colifata, la ‘terapia’ que triunfa en un psiquiátrico