di Cetta Brancato
Palermo pare abbia una corda al collo. Di nuove povertà, accanto alle vecchie già così sedimentate. Palermo pare che abbia i denti marci tanta è l’immondizia davanti ai cassonetti della differenziata e le sue strade sporche che solo certe piogge incessanti riescono, in qualche modo, a detergere: una città di frontiera aperta, immancabilmente, ad ogni fluido vivere. Ma ottobre è una stagione che non dimentica l’estate. Se ne sentono tracce di calore questa domenica mattina che non vale la pena di rimediare a casa. Alle mie spalle c’è il Borgo vecchio con qualche bottega aperta e la sua animosità che, fino a qualche anno fa sopravanzava, ora attutita da un recente imbroglio, da un fortuito oblio. Seppure immutata s’intuisca la crudezza della malavita. Intatta qualche osteria accanto a nuovi e sconci fast food. Poi macellai, fruttivendoli, ferramenta. I signori Virzì che preparavano gli involtini migliori della città hanno chiuso bottega. Erano fuori tempo, con maniere da gentiluomini. Così sono spariti anche i gatti che ben venivano nutriti dalla loro carità. Abbandonando il mercato con le sue voci opache al di là della strada, mi dirigo verso il mare, sulla Via Crispi. Arteria di polvere, di puttane, di pompe di benzina, di bar desolati. Ora vi si trova anche una sala massaggi e, ancora, un paio di tabacchi. Una dietro l’altro sotto il porticato di marmo che sembra far diventare freddi i piedi. Fino al monumento ai caduti della mafia, una stele di ruggine, di sangue, ai cui piedi urgono rose come accese da un maggio lontano. Il cordolo lungo dei grandi snodi, le spalle del Conservatorio, un slargo di terra battuta, un parcheggio custodito da altra malavita. Il chiosco di frutta, in fondo, sembra dare un respiro. Forse, l’ultimo rimasto. Di fronte la Cala con il suo orto di barche azzurre, tante che sembrano tutte uguali a me che ne sono nata lontana. Sul molo un pescatore vende totani giganti che non sai mai dove sono stati pescati. Bar della movida e circoli per signori attraversati dai respiri fermi dei tanti che vengono a correre sui larghi marciapiedi. Questo mare rimane duro e doloroso. Arginato, sacrificato, assassino. Padre di traghetti, di navi da crociera. Nulla di quel mare africano che rivolta la memoria in nuovi argomenti dell’anima, che ti prende per la gola. Nulla di quella vertigine di stupefatte natalità. Quando non si nasce in un luogo non lo si può amare in maniera perfetta, né puoi tornare laddove si sono formate le tue ossa. Diventi apolide, curioso di ogni patria, neppure destinato al ricordo che ha troppo inutile spessore per guadagnarsi il mestiere di vivere. Non c’è un posto mi sia casa, lo so. Neppure, sulla Via Alloro dove sul selciato è rimasto l’andare delle vecchie carrozze. E tanta bellezza che, a guardarla, si resta asfissiati ad inghiottirla tutta: i musei, i palazzi che ho apprezzato con prestato amore per il solo fatto d’essere carne dell’isola. Poi il giardino dell’Alloro con il suo piccolo orto di alberi. Mi sono persa. Tutto è troppo per una passeggiata domenicale perché ogni cosa deve mantenere il garbo di spensierato svago. Sono aperte le chiese, ma il sole ripudia l’incenso. Chiedo al custode dell’oratorio di Santa Cita di potere sostare sotto la Choriosa insignis in fiore. Gli ultimi petali rosa toccano il cielo. Fiorisce come in primavera perché, pur essendosi adattata al nostro clima, ha memoria del ciclo vitale della zolla in cui è nata. Proprio come me e certi sommacchi che ho visto nei cortili nascosti di questa città che più non profuma che di grandezza e di sgomento. Ma è solo una mattina d’ottobre con una passione di risulta sotto le suole delle scarpe. Attraverso la Vucciria a occhi chiusi, poi la libreria all’aperto addossata sui muri. Mi sono di nuovo smarrita. Odore di cappuccino, di ragù, di una recente invisibile peste. Saranno le stagioni che urgono sempre troppo in Sicilia, lasciandoci inadeguati ad una madre sublime e arrogante che onoriamo con parole zoppe. Fotogrammi di anima che passano sull’orologio della tradita Via Roma, svuotata da ogni risorsa commerciale. L’Hotel et des Palmes, in restauro, ci abilita ad una speranza di futuro. Piazza Florio con le sue palme sdegnate e irraggiungibili, gli escrementi dei cani, le panchine su cui si ritrovano i ragazzi del quartiere. Il supermercato dell’angolo, ancora aperto, con l’affaccendarsi delle cassette già vuote da portare via. La toppa del portone si ammorbidisce sulla chiave: è solo una domenica metropolitana di antichissime nuvole.