Conversazione di Alfonso Lentini con Vito Bianco
Vito, il tuo Avamposto sul confine (Torri del Vento Edizioni, Palermo 2020) mi è piaciuto davvero! L’ho letto e più volte riletto. Ad ogni nuova lettura le tue poesie mi hanno detto nuove cose, offerto nuove sonorità. Dunque mi piacerebbe parlarne con te. Perciò, anche se giustamente si dice che i versi, una volta composti, debbano vivere di vita propria e che l’autore sia la persona meno adatta a commentarli, vorrei lo stesso farti qualche domanda. Cominciamo. A una lettura “immediata” il tuo libro appare come una sequenza di piccoli episodi della quotidianità infilati con delicatezza uno dietro l’altro sin quasi a formare un piccolo poema, come giustamente nota Leonora Cupane nella sua postfazione. Ma questa componente autobiografica va vista come un semplice rendiconto di un’esperienza umana o pensi sia possibile guardare dietro le spalle dei versi e muoverci alla ricerca di interfacce, trasformando in emblemi gli episodi che rappresenti? Insomma: l’autobiografia è il testo o è il pre-testo?
L’autobiografia è quasi inevitabile, ma è solo lo spunto, l’occasione, il punto di partenza, o la spinta a scrivere. Quindi direi che è un pretesto, letteralmente. Devo anche dire che l’autobiografia in quanto tale mi interessa poco o niente, la cosa che conta è ovviamente il risultato formale, linguistico, l’emblema, per dirlo col termine che hai usato tu. Poi c’è da dire che molti episodi del libro sono del tutto inventati, anche se capisco che possono sembrare veri. La verità è che la distinzione è inutile e forse persino fuorviante: nella pagina tutto è vero, di una particolare verità, beninteso, quella letteraria, poetica. Quindi posso dire che il lettore è libero di vedere nel libro una sorta di trascrizione di episodi autobiografici, senza però dimenticare che l’io poetico non coincide mai con l’io biografico. Ti faccio un esempio. Poco tempo fa ero seduto al tavolo di un caffè. Mentre guardavo la prima pagina del giornale che avevo davanti ho pensato la frase “Io sono quello che legge”. Ho capito che poteva essere l’ ‘inizio di qualcosa, mi capita spesso di fare questa esperienza, e infatti ore dopo mi è tornata in mente e ho provato ad andare avanti. La breve poesia che ho scritto ha preso una piega inaspettata che mi ha sorpreso, e si chiude con l’evocazione dei morti, dello sguardo dei morti. In questo breve componimento uso il pronome io, cosa che non faccio mai, ma quanto ha a che fare col mio io autobiografico l’io di questa poesia? Quasi niente, direi. Se avessi usato il tu, per dire, non sarebbe cambiato quasi nulla.
Le tue poesie hanno un ritmo contenuto, quasi compresso, scandito da rime interne alternate a un sapiente gioco di enjambement. Vi si incastrano parole scalpellate, insostituibili, inserite quasi fisicamente nello spazio, eppure cariche di una loro speciale fragilità che penso nasca dalla consapevolezza di quanto il dire sia una necessità e nello stesso tempo un problema, dato che “nessuna verità (…) vista da vicino regge l’esame”. Ogni poesia è un perfetto giro di compasso circondato di silenzio. E proprio nei pressi di questo silenzio, ai bordi del non detto, mi sembra di avvertire una chiave di lettura del titolo, essendo forse questo, fra il detto e il non detto, il confine, il fondo della pianura verso cui il tuo avamposto si sporge. Sei d’accordo?
Sì, sono d’accordo, uno dei significati del titolo allude, quasi mio malgrado, alla mobile linea di confine che separa il dicibile dall’indicibile, come scrivevo nella mail di risposta alla tua bella e acuta lettera. Dicevo mobile perché la poesia ha appunto il compito di spostare un po’ più avanti questo confine, ad ogni tentativo riuscito qualcosa accade, si muove, la lingua che usiamo non è più la stessa, è cambiata, il confine è più in là di un millimetro e si ricomincia… Naturalmente questo non vuol dire che ci si mette a scrivere con questa esplicita intenzione; lo si fa semplicemente cercando il modo migliore di dire, un modo nuovo o relativamente nuovo, non accontentandosi, forzando il linguaggio, trasformando il già detto e usando l’orecchio per trovare gli accordi giusti. Insomma, si potrebbe dire che se la poesia lascia la lingua che trova, non è poesia, ma questo non dipende dalla complicazione o dall’oscurità, ma dalla densità, dalla concentrazione, dal tono: Robert Frost, che sembra chiaro, non è meno denso di Paul Celan, che ha fama di essere un poeta oscuro, difficile. Bisogna invece diffidare del “poetico”, che è una patina, uno stereotipo, una contraffazione che molti scambiano per poesia. Non è un caso se “poetico” è un aggettivo così usato, che si spalma volentieri su quasi tutto.
A proposito di titoli. La seconda sezione del tuo libro si intitola “Lezione di fisica” che coincide con quello di un altro libro, un libro importante: “Lezione di fisica” di Elio Pagliarani. È una coincidenza casuale? C’entra più Pagliarani o una tua predilezione per la fisica? Se è così, in che senso?
C’entra il mio interesse per la fisica e i libri di divulgazione scritti dai fisici come Rovelli, Hawking o Brian Greene. Nel primo libro, Versi del non riposo , c’è una poesia intitolata “Buchi neri”; nel penultimo c’è “Fotoni” e un breve racconto in versi di un episodio della vita di Einstein. È anche un modo per ribadire l’indole sconfinata della poesia, che passa con disinvoltura dall’ordinario allo straordinario, dal piccolo al grande, dalle foglie alle stelle, dal bucato appeso al filo alla materia oscura. È la lezione della poesia moderna, di Baudelaire e Pascoli, ma è una lezione che si può far risalire ai latini, Catullo, Orazio, Lucrezio… Ma a proposito di Pagliarani: secondo me il suo libro decisivo è “La ragazza Carla” , un libro linguisticamente rivoluzionario.
Sorprendente la quantità di fondali diversi e cangianti dove si svolgono le scene, squarci di paesaggi che forse ricalcano la tua erranza, la pluralità dei luoghi in cui hai vissuto, e che descrivi con precisione a volte persino “topografica”, nonostante l’indeterminazione dei microepisodi che vi cuci sopra. Che ruolo hanno i luoghi nei tuoi versi? Che ruolo ha l’erranza?
Viaggiare è rimettere in moto lo sguardo, che ha bisogno di luoghi nuovi per uscire dall’abitudine del già visto che non si vede più. Rimettere in moto lo sguardo, per chi scrive, equivale a rimettere in moto la lingua, che fa tutt’uno col desiderio di scrivere. (Roland Barthes dice: “Si scrive col proprio desiderio, e io non smetto mai di desiderare”). Quindi viaggiare conta prima di tutto per l’esperienza di spaesamento che fa fare, per il momentaneo squilibrio che produce. Ma io non sono un viaggiatore, se non di piccole distanze da percorrere in treno, il mezzo di trasporto che preferisco. Faccio molta resistenza, ma poi mi faccio incantare perfino da dettagli apparentemente più insignificanti. Mi piace soprattutto visitare per la prima volta una città, camminarla, per così dire, col solo scopo di guardarla, di smarrirmici come ci si smarrisce in una foresta, per dirla con Benjamin, ma senza l’intenzione di perdermi, soltanto rinunciando alle mappe. Al ritorno scrivo sempre qualcosa, ma non so mai cosa sarà. Dipende da quel che affiora, dall’immagine che prevale sulle altre.
Passando dal libro a un discorso più generale. Quale posto occupa nella tua vita la scrittura poetica?
Fa parte della mia vita da trent’anni; è una parte della mia esistenza quotidiana, ma questo non vuol dire che sento l’obbligo di scrivere tutti i giorni. Scrivo quando sento di doverlo fare, quando qualcosa bussa alla porta, potrei dire. Ma tu sai che si scrive anche quando non si scrive, senza volerlo sappiamo che ogni cosa che ci accade può trasformarsi in scrittura, domani o tra un mese, non lo sappiamo. Questo vale solo per la poesia; per un romanziere il discorso è diverso.
Nell’ambito della poesia italiana contemporanea ci sono autori ai quali ti senti vicino?
Se ti riferisci ai viventi, posso dirti che mi piace Valerio Magrelli quando è davvero concentrato e non tenta di far passare il facile per una profondità di secondo o terzo grado: i suoi primi libri sono molto belli. Poi apprezzo Patrizia Cavalli, per come riesce a trasfigurare l’elemento biografico, e il rigore civile e formale di Gianni D’Elia, e il mio non più sentito amico Tommaso Di Francesco, al quale devo un decisivo incoraggiamento in anni giovanili, a Roma, quando avevo da poco cominciato a scrivere. Fu lui a coinvolgermi nella redazione del periodico Oceano Atlantico , nelle cui pagine ho pubblicato i primi testi.
E invece, per quanto riguarda gli autori del passato (per così dire, i classici) hai riferimenti precisi?
Faccio per primo il nome di Baudelaire, soprattutto per il ruolo che ha avuto nella nascita della poesia moderna. Poi direi Eliot e Yeats. E Mandel’stam, per il quale ho un debole, perfetto esempio di unione di fisico e metafisico, di audacia e rigore. Tra gli italiani Sereni è il poeta che rileggo più spesso. Aggiungo Fortini, il già citato Pagliarani e l’inaggirabile Montale, la cui importanza e valore credo sia innegabile. Tra gli stranieri metto un quartetto di autori ai quali torno periodicamente: Larkin, Lowell, Michael Krüger e Enzesberger, per l’ironia, la concretezza, la sorprende varietà di registro.