di Vito Bianco
È trascorsa una settimana dal decreto dei tre colori – oggi è giovedì, giorno di mercato – e devo ammettere che anche a me sembra una situazione strana, spiazzante, vagamente surreale, sfasata rispetto ai bollettini sempre più allarmanti, alle ambulanze, ai ricoveri, ai ripetuti e preoccupati inviti alla prudenza, alle previsioni fosche per la fine dell’anno nonostante la buona notizia del vaccino che tra non molto sarà disponibile. Mi aspettavo all’incirca le strade e le piazze di aprile e invece mi accorgo che da venerdì niente o quasi niente è cambiato: le stesse presenze nella larga piazza centrale che ha il nome di Antonio Gramsci che a Cinisello o a Balsamo (a quel tempo i comuni erano ancora due) si dice abbia trascorso una notte nel ’24 (lo ha detto anche tre anni fa il suo biografo Angelo D’Orsi nell’aula magna della biblioteca), le stesse – al mattino e nelle ore del secondo pomeriggio – a percorrere in entrambe le direzioni via Garibaldi che in primavera era vuota a ogni ora del giorno o al più percorsa rapidamente dai pochi che uscivano per le sigarette o la spesa o la passeggiata del cane. Le mascherine sui volti c’erano anche prima, anche ad agosto e settembre, i milanesi e viciniori che vedevo e vedo in giro vanno protetti anche all’aperto e sui marciapiedi sgombri, tanto che ti chiedi come siano stati possibili questi numeri, duemila qualche giorno fa tra Sesto e Cinisello, a Milano molti di più, e si capisce perché l’ordine dei medici invoca il confinamento totale su tutto il territorio nazionale: trentaseimila nuovi casi è un dato da brividi, non molto distante dalla cifra record di cinquantamila del 23 marzo. “Chiuderemo presto, non c’è altro da fare” mi diceva poco tempo fa un barista con due locali in via Garibaldi, pronto all’inevitabile ma non rassegnato, con la fermezza stoica di un contadino che si prepari all’arrivo delle piogge stagionali o alla prevedibile esondazione del vicino fiume. Ecco, forse la chiave di comprensione del nuovo clima possiamo trovarla in quella che si potrebbe chiamare l’interiorizzazione dell’eccezionale: una sorta di normalizzazione quasi naturale, fisiologica dell’emergenza, come se una collettiva presa di coscienza avesse messo a fuoco una verità che solo qualche isolato esperto ha osato esprimere senza giri di frasi: con il virus, con questo virus o con altre possibili virus dovremo convivere a lungo, forse per sempre, tanto poco probabile appare oggi una recisa inversione di tendenza nel nostro autolesionistico rapporto con la natura, vagheggiata in chiave di mitico paradiso perduto e tema letterario di sicuro successo commerciale ma devastata nei fatti dalla miopia politica e dalla prepotenza mortifera del regime capitalista che tutto sconvolge e riplasma, modifica e, quando serve, cancella, spiana, sbriciola (“tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria…”). Ed è seguendo questa rassegnata consapevolezza, provando a continuare a vivere convivendo con un pericolo non sottovalutato che domenica le madri e i padri hanno portato i figli sui prati dei dodici chilometri quadrati del Parco Nord, uno straordinario polmone metropolitano che rappresenta un pacifico e molto frequentato confine vegetale tra il capoluogo e i primi comuni della cintura che con quest’ultimo intrattengono un rapporto di costante interscambio. Genitori, bambini, runner solitari in tuta e berretto, gruppi di amici impegnati nella camminata veloce, ciclisti, lettori e lettrici ai bordi del laghetto artificiale con le anatre indifferenti che nuotano serene guardando il vuoto davanti a sé lasciando l’acqua miracolosamente intatta – e chissà dove vanno quando il lago gela, si chiedeva l’adolescente Holden, guardando altre anatre in un’altra città. Tutti con la mascherina su naso e bocca portata, ho pensato, come una seconda pelle che può salvarti la vita. Chi l’avrebbe detto.