di Guido Ruotolo

Che choc, il recupero della motovedetta albanese affondata al largo di Brindisi alla vigilia di Pasqua del 1997, da una nave militare italiana che aveva avuto l’ordine dal governo di respingere in mare i clandestini.
Come in una scena di un film catastrofico, dagli oblò del “Kater Rades I” riportato in superficie e imbracato in una struttura galleggiante, si muovevano nell’acqua, dentro la stiva e nella cabina del comandante, i poveri corpi ormai saponificati, irriconoscibili, delle vittime albanesi. Era il ‘97 e ricordo che Silvio Berlusconi adottò una famiglia albanese da ospitare nella sua tenuta di Arcore.
L’episodio di Brindisi fu una ferita profonda, che si sarebbe rimarginata solo con il passare del tempo. Anche per noi italiani. Fu la prima (e per fortuna l’ultima volta) che mettemmo in atto un’azione di respingimento attivo in mare con un esito drammatico.
Ci riproveranno nel 2009 i governi di centrodestra di Berlusconi e Maroni, ma in direzione della Libia. Quell’episodio fu censurato dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo.
Ma quella fu un’altra storia che racconteremo.
Non ho a disposizione statistiche ma credo che quella albanese sia stata l’immigrazione in entrata (e in uscita) più imponente d’Europa. Succedeva spesso che le forze di polizia fermassero un “clandestino” albanese che aveva collezionato cinque, sei, otto fogli di via, decreti di espulsione. Avete capito bene: non l’albanese a cui viene consegnato il foglio di via e lui fa finta di nulla, ma l’albanese che dopo un periodo di affari più o meno leciti da noi tornava a casa per un periodo variabile prima di imbarcarsi di nuovo su un gommone e scendere su qualche spiaggia del Salento.
In quel periodo scoppiettante del 1997 e della crisi delle piramidi finanziarie mi trovavo a Valona, che era la capitale resistente e di opposizione al regime di Sali Berisha. Città socialista, ricca, dai mille affari indicibili, droga, armi, clandestini e purtroppo anche di organi umani.
Valona l’abbiamo vista tutti, negli anni Novanta, svilupparsi, crescere a dismisura, essere un cantiere perenne. Decine di nuovi alberghi e ristoranti erano il prezzo per mostrarsi gonfia di denaro.
Sono nati eroi, e divi negativi, buoni per lenzuolate di reportage, per racconti di imboscate e sparatorie. Criminali incalliti trasformati in miti da orde di inviati speciali.


Un flash. Ricordo quando arrivammo a Valona da Saranda, in quel marzo del 1997. La cucina del nostro albergo al porto era nei fatti chiusa. L’inviato fotografo di Famiglia Cristiana si trasformò in cuoco esperto e riuscimmo a cavarcela in quei primi giorni.
Un altro flash che ritorna alla memoria sono le moschee cresciute a dismisura in tutta l’Albania in quegli anni, luoghi di culto volute e finanziate da Sali Berisha.
Mentre noi eravamo a Valona, l’esodo verso la Puglia continuava inesorabile. Persino la cosiddetta flotta navale albanese riparò nell’accogliente porto di Brindisi mentre venivano saccheggiati di armi e proiettili i depositi militari che abbondavano in Albania. E naturalmente chiesero asilo politico anche uomini degli apparati di polizia e degli apparati di intelligence che avevano servito il regime di Henver Hoxha e poi la traballante transizione verso la democrazia.
Io e un collega del Messaggero ci trasferiamo nell’area industriale di Valona (nulla di sconvolgente). Capannoni ed edifici in rovina trasformati in “fabbrichette”.
Ero molto soddisfatto perché avevo conosciuto il Comitato rivoluzionario di Valona che mi consegnò un lasciapassare, e a sua volta mi raccomandò al Presidente della Repubblica del Paese delle Aquile, socialista, che mi fu molto utile per viaggiare nella regione di Tropoje, al Nord – quando, due anni dopo, la NATO decise di bombardare la Serbia per risolvere l’autonomia del Kossovo.


La comunità internazionale, l’Italia soprattutto, si impegnò per affrontare la crisi del 1997. E con tanta pazienza e risorse, e aiuti umanitari riuscì a raffreddare il clima avviando anche una campagna politica per far consegnare dagli albanesi milioni di kalashnikov e proiettili, in cambio di un risarcimento economico.
Fino ad allora avevamo conosciuto l’Albania da un punto di vista umanitario. In realtà l’Albania era diventata sempre di più una regione strategica, anche dal punto di vista geopolitico.
L’Italia nel decennio della trasformazione da un regime autoritario a una democrazia parlamentare, ha aiutato molto l’Albania che più che dal ministro degli Esteri è stata adottata dal ministro dell’Interno. Stessa dinamica accadrà nel decennio successivo con la Libia.
Consolidata la democrazia, l’Albania si rivelerà molto utile come avamposto della NATO per cacciare i serbi e quindi rendere autonomo il Kossovo. Autonomo, non indipendente (il Kossovo si autoproclamerà indipendente nel 2008).
Quella stagione fu emozionate e indimenticabile. I campi profughi a Morini, il valico di confine dell’Albania, e poi i massacri dei Rom da parte dell’Uck, l’organizzazione militare finanziata e sdoganata dalla segretaria di Stato americana Madeleine Albright a Rambouillet, durante il tentativo di mediazione (che Usa e Nato avevano fatto finta di percorrere, decisi invece a dichiarare guerra alla Serbia), i cortei di kossovari in fuga.
Uno sputo di terra, qualche milione di persone, una tragedia indescrivibile.

Era il 1999 e a poche miglia dalla Puglia, al di là dell’Adriatico, si combatteva una guerra etnica. Non c’erano buoni e cattivi, erano tutti carnefici e vittime.
Dall’Albania era facile seguirla come uno spettatore che segue la “prima” in prima fila. Tre ricordi nitidi. Valico di Morini, gli aerei dell’Alleanza atlantica che sorvolavano il confine si spingevano in Serbia e bombardavano. Le scie delle bombe si vedevano come in un film. Ma c’erano degli “sniper” serbi. E un giorno fu centrato un assistente operatore di una televisione straniera che stava con noi sulla linea di confine dalla parte dell’Albania, e lo vedemmo cadere nel prato, a qualche decina di metri da noi.


Burrel. Centro Albania. Con due colleghi, Enrico Fierro dell’Unità e Francesco Romanetti del Mattino, siamo alla ricerca dei campi militari di addestramento dell’Uck. Il nostro prezioso producer, amico, traduttore, organizzatore, Skender Nazaj, aveva uno zio generale dell’esercito albanese a capo di tutto il settore dei carri armati. Skender ci portò in una landa desolata alle porte di Burrel.
Troviamo una caserma. Sentiamo voci dall’altra parte del muro con i fili spinati. Un coro, una marcetta americana sentita in mille film di guerra. Immagini un plotone di reclute che si addestrano. Spunta una ronda, armata di fucili e kalasnikhov. Ci puntano le armi contro.
Skender si sente offeso e umiliato per averci messo in condizioni non molto piacevoli. Sequestrati e in balia di tre ragazzini armati. Potevano farci secchi senza che nessuno lo venisse a sapere.
Skender è alterato, alza la voce, pretende di parlare con il comandante della caserma. E si gioca la carta dello zio, probabilmente. Dopo un tempo interminabile ci rilasciano.
Sulla strada di ritorno per Tirana, incontriamo in un bar lo zio generale che si scusò offrendoci il the.
Noi intanto avevamo scoperto che in una caserma albanese forse con addestratori americani o comunque stranieri, militanti dell’Uck si addestravano. Una conferma di una pericolosa contaminazione.
Aeroporto di Tirana. L’arrivo degli Apaches, i mitici, indistruttibili, ipertecnologici elicotteri assassini americani. E qui, come allora, sembrava di vivere frammenti di “Apocalipse Now”, la scena dell’assalto con il napalm del villaggio vietcong. Ricordo che il giorno prima della “parata” ufficiale, con Pino Scaccia, inviato del Tg1, andammo a verificare una notizia sul possibile transito di quegli elicotteri in una certa area.
Era il nostro mestiere cercare notizie e verificarle. E Pino era un maestro.
L’Albania come paese di transito di immigrazione clandestina velocemente lasciava il suo passato alle spalle. Da quel fianco, i flussi migratori si stavano dirigendo per altre rotte. Il Paese delle Aquile in quanto tale, con il nuovo millennio, si stava normalizzando.


Ma la guerra contro la Serbia per l’autonomia del Kossovo ha segnato profondamente anche l’Albania. I “cugini” albanesi non erano considerati quanto i kossovari.
Che erano specializzati nei traffici criminali. Quello che diventerà capo dell’Uck, primo ministro, ministro capo di Stato del Kossovo, Hashim Thaci, era una grande trafficante di eroina quando viveva in Svizzera.
Una donna di Valona che vive in Italia, Sadihana, ricorda di quel periodo: era un incubo vivere a Valona in quegli anni Novanta. Tra omicidi, i corpi senza vita trovati sulla battigia, tra cui diversi bambini con cicatrici per gli organi espiantati. Era terribile».
E già, kossovari e albanesi hanno trafficato in organi umani. Gli uomini dell’Uck hanno massacrato serbi e rom. Oggi, vent’anni dopo, si sta iniziando a scrivere la verità. Presso le Camere speciali dell’Aja è appena iniziato il processo su quella pagina buia della storia. Che ci riguarda molto da vicino.

foto di Guido Ruotolo

Di Bac Bac