di Vito Bianco
Pubblichiamo la prima parte di un racconto di Vito Bianco. La seconda parte seguirà domani.
Se dovessi dire con precisione quando è cominciato, non sarei in grado di farlo. Il fatto è che ormai mi pare non ci sia mai stato un tempo in cui la serenità, non voglio dire la felicità, era una presenza stabile a casa nostra, un altro silenzioso componente della famiglia, se così posso dire. Poi un giorno, forse una notte, una nuvola scura si è fermata sulle nostre teste, sopra il tetto della nostra casa; un giorno che non riesco a identificare è cambiato tutto, anche se allora non potevamo saperlo, non potevamo sapere che quella nuvola sarebbe diventata il nostro incubo; che quel piccolo rotolo di grasso, appena sopra la cintura dei pantaloni, era solo l’inizio, l’inizio della fine.
Cercherò di procedere con ordine, anche se non sarà facile. Per questo vi chiedo scusa in anticipo per i probabili vuoti di memoria o le altrettanto prevedibili inesattezze. Vi prego di credere che non voglio nascondere nulla, che ho la ferma volontà di dire tutto, di liberarmi una volta e per sempre di questo peso, dell’amarezza accumulata durante i mesi in cui insieme, io e lui, abbiamo lottato e sperato.
In principio fu il rotolo di grasso. Che cos’è un rotoletto di grasso intorno alla vita di una persona asciutta, senza neppure un etto di sovrappeso? Nulla. Una cosa insignificante. Il pretesto per una affettuosa presa in giro.
E infatti andò così: feci qualche battuta sull’appesantimento ineluttabile dell’età, sull’imminente decadenza senile di un corpo che non gli aveva mai dato problemi, che Guido sfoggiava con l’orgoglio di un atleta, con la sicurezza di chi non mai dovuto minacciare con gli occhi il display di una bilancia.
Guido rideva, esagerando, faceva finta di inorridire alla vista di quel rotolo, sicuro che un paio di corsette domenicali al parco l’avrebbero squagliato come burro sul fuoco. Purtroppo la sua spavalda previsione era destinata a rivelarsi errata. Dopo ben quattro sedute di jogging, la protuberanza era ancora lì; anzi, come fu costretto ad ammettere, era persino cresciuta. Cresciuta di quanto? Non di poco, se mi bastò un’occhiata una rapida occhiata per rendermi conto che il volume del rotolo di grasso era aumentato.
Guido era appena uscito dalla doccia e ciabattava per casa alla ricerca dei suoi pantaloni azzurri di fustagno. Aveva già messo i calzini e i boxer con le minuscole rane colorate e, mentre apriva il cassetto dell’armadio dove stavano impilate le polo di cotone che metteva sotto la camicia, lo sguardo mi cadde sulla sua pancia. È più spesso, dissi. Non ti pare? Lui mi guardò interrogativo, sul momento non capì di cosa parlassi, forse perché già allora si era messo all’opera da qualche parte dentro di lui il meccanismo inconscio di difesa che più tardi gli avrebbe consentito di non soccombere all’angoscia. Sei sicura?
Mi guardò con gli occhi annebbiati, prendendo il rotolo tra l’indice e il pollice, valutandone la consistenza. Dici di no?, chiesi. In effetti, sembra più grosso, ammise, con un tono a metà tra la tra la tristezza e l’irritazione. Per incoraggiarlo gli dissi che tra due settimane al massimo quella pancetta sarebbe stata un vago ricordo. Vedendo che gli restava la delusione, mi avvicinai per accarezzargli la pancia, pensando che qualche coccola coniugale avrebbe fatto sparire il malumore. Guido mi lasciò fare, ma lo sentivo rigido, intento a rimuginare il risultato dell’esame.
Col senno del poi devo ammettere che aveva ragione lui a dare alla cosa un’importanza che in quel momento non sembrava avere. È facile dire ora che aveva avuto un presentimento, ma io sono sicura che quella mattina Guido sentì la scossa che l’avvertiva che qualcosa di terribile si stava avvicinando; qualcosa che avrebbe per sempre cambiato la sua vita; e non solo la sua.
Dieci giorni dopo il rotolo di grasso non era più un innocuo arrotondamento dovuto al poco moto; era diventata una vera e propria pancetta, che Guido si guardava allo specchio almeno due volte al giorno: la mattina, prima di entrare nel box doccia, e la sera, quando andava in bagno a lavarsi i denti, già in pigiama e pronto per il sonno.
Io capivo che si costringeva a non farlo più spesso. Cercava di resistere perché da quei controlli veniva fuori ogni volta più abbattuto. Non sapevo che fare; mi sforzavo di decidere quale fosse il modo giusto di stargli vicino senza correre il rischio che scambiasse la comprensione per compatimento, per pietà. Conoscendolo, sapevo che non l’avrebbe sopportato, che l’avrei solo irritato.
Decisi allora che dovevo far finta di non accorgermi di nulla: né delle volte che lo sorprendevo davanti allo specchio – di fronte, di profilo -, né della pancia. E neppure delle braccia che gli si erano arrotondate, o dei polpacci, o del grasso sul petto, intorno ai capezzoli e in prossimità delle ascelle. Per non voler pensare al doppio mento, spuntato di colpo, dalla sera alla mattina.
Speravo e pregavo che, concentrato com’era sulla pancia, non si accorgesse del resto. Ma sapevo che non era possibile. Guido era un osservatore infallibile, e solo la paura e la pietà per se stesso potevano far sì che non vedesse quello che stava succedendo al suo corpo. Soltanto se aveva deciso di non vedere, non avrebbe visto.
E così Guido guardava. Guardava e vedeva. Vedeva e sprofondava in una spessa tristezza che ben presto divenne umore nero, per trasformarsi, prima che fosse passato un mese da quella prima scoperta, in aperto, inconsolabile sconforto. E il suo sconforto non poteva che diventare anche mio; così come il suo dichiarato pessimismo.
Per quanto mi sforzassi di mostrarmi allegra, di non smettere di incoraggiarlo, di farlo ridere con battute e paradossi che avevano lo scopo di esorcizzare la manifesta inquietudine di Guido e la mia dissimulata sotto una maschera di ottimismo, sentivo che mio marito stava scivolando via dalla mia presa, e che più scivolava e più aumentava il mio scoraggiamento, insieme al desiderio di lasciarmi andare allo sconforto. Ma uno dei due doveva tener duro, e dato che lui era la vittima di quella incomprensibile malattia, dovevo essere io a resistere.