di Tano Siracusa
Per un’intera giornata l’onda interminabile della steppa, il verde deserto dove in un tempo ugualmente sconfinato, distanziati da decine di chilometri, apparivano una yurta, la tenda mongola, un vagone ferroviario adibito ad abitazione, mandrie di cavalli o di cammelli, un vecchio, elegante albergo degli anni ’30, chiuso ma perfettamente in ordine da quasi un secolo. Poi si arrivava a Dashbalbar, non lontano dal confine con la Cina.
In Mongolia esiste una sorprendente inventiva nel riciclare l’usato.
Non buttavano via nulla a Dashbalbar, praticavano l’arte del riuso con trovate a volte esteticamente ammirevoli, come il muro di cinta della sciamana del villaggio realizzato con migliaia di bottiglie vuote.
Gli uomini andavano a cavallo e sulle motociclette da dove governavano le mandrie di cammelli, poi si ubriacavano e si addormentavano sotto il cielo di settembre. Le donne, che intanto avevano cucinato, li riaccompagnavano barcollanti a casa, e dirigevano anche la scuola e l’ospedale, il teatro e il museo.
A Dashbalbar i sovietici avevano infatti costruito una scuola, un ospedale, un museo e anche un grande teatro, dove ogni settimana si ballava e che ogni tanto ospitava qualche cantante famoso o delle fiere-mercato, come quella di cellulari che una domenica aveva convocato l’intera popolazione del villaggio.
Non vi erano chiese ortodosse, moschee o templi buddisti a Dashbalbar, il comunismo sovietico prima e il consumismo di marca cinese poi li avevano cancellati. Le nuove deità, i cellulari, brillavano quella domenica nel grande teatro sconsacrato, fra la folla ammansita dei nuovi fedeli.