di Guido Ruotolo

foto di Tano Siracusa

Un cortile baciato dal sole. Scena irreale. Duecento persone accovacciate a terra. In silenzio. Come se stessero aspettando qualcosa. Da una parte gli uomini che occupano lo spazio grande, le donne sono in un angolo. Da sole. Un locale. Un grande fornello da campo acceso con un pentolone e un cuoco che gira qualcosa di indefinibile. Camerate senza brandine ma un pavimento fatto di tappeti e coperte. Insomma, centro di detenzione pulito ma senza umanità. 

Scattiamo un po’ di foto (che saranno pubblicate sulle prime pagine del Corriere e della Stampa). Siamo appena arrivati a Tripoli, io e Fiorenza Sarzanini del Corriere della Sera. E i funzionari del governo ci portano al centro di reclusione che si trova in periferia, a Tripoli. Dopo neanche un giorno dai clamorosi respingimenti in mare riusciamo a vedere l’oggetto della grande eccitazione del governo italiano. In realtà i “respinti” fanno una gran pena. La sensazione è che a loro, ai libici, questa partita, la “merce umana”, interessi poco. È solo merce di scambio politico, appunto. La grancassa dei “primatisti” di casa nostra sono in festa. Al governo c’è il centrodestra. Ministro dell’Interno é il furbetto Roberto Maroni. E’ di altra pasta da quel “sensitivo” di Matteo Salvini, o dal predecessore forzista Beppe Pisanu, prima dell’interregno di due anni di Giuliano Amato. Ma anche Maroni cede alla propaganda degli odiatori. È l’8 maggio del 2009 e per i leghisti e i postfascisti di governo, è come se fosse il loro 25 aprile. Due motovedette della Finanza e della Guardia Costiera respingono in mare dei gommoni carichi di 227 profughi e li riportano a Tripoli. Era l’inizio della lunga stagione della caccia in mare. Gli “odiatori sociali” stavano per invadere l’Europa. Qualche anno ancora, prima che i Salvini, gli Orban, i paesi del Nord dessero prova del peggio di sé.
L’8 maggio del 2009, come sappiamo, si è trasformato in una Caporetto per questa Italia indegna: la Corte Europea per i diritti umani ha accolto i ricorsi dei rappresentanti del 227 profughi “respinti”, condannando l’Italia.
Ma è anche vero che la filosofia del migrante come minaccia perpetua in quegli anni, e ancora di più nel decennio che si è appena concluso, continua a essere il cemento che tiene insieme la destra fascista, i leghisti, i primatisti. In poche parole, gli odiatori. Non penso che lo stesso Silvio Berlusconi fosse molto contento che la “normalizzazione” dei rapporti tra Libia e Italia passasse attraverso la bassa macelleria leghista e fascista. Anche se va detto che sia per i governi di centrosinistra che di centrodestra le relazioni diplomatiche con Tripoli erano gestite soprattutto dai ministri degli Interni. Come del resto era accaduto con l’Albania. Insomma che le relazioni con Tripoli erano molto importanti per noi per la minaccia che la Libia rappresentava per la sicurezza nazionale, in particolare per la gestione dei flussi migratori. E dunque, andava fatto tutto quello necessario per impedire che il grande fiume dei flussi migratori tracimasse in Italia. Appena un anno prima, il 30 agosto del 2008, Silvio Berlusconi e Muammar Gheddafi avevano firmato a Bengasi, notaio il figlio dell’eroe della resistenza al colonialismo italiano, Omar El Muhktar, il Trattato di Amicizia, partenariato e cooperazione, ratificato dai due Parlamenti nel febbraio e marzo del 2009. Un evento straordinario, unico. Che chiudeva il lungo contenzioso tra i due Paesi per il risarcimento da concedere alla Libia per il periodo coloniale italiano. Per i massacri del governatore Graziani. Nel libro dei sogni del regime libico – ma penso che per Gheddafi fosse solo una questione di principio – c’era l’autostrada costiera che dal confine con la Tunisia sarebbe dovuta arrivare a quello con l’Egitto (quasi 1.800 km). Era stato uno dei ministri degli Esteri italiano, Ruggiero, in un incontro lampo con Gheddafi, a insinuare il progetto della grande autostrada. E il Colonnello lo prese in parola. Grazie all’Italia, la Libia del nuovo millennio viene sdoganata da Bruxelles (Gheddafi ci andò nel 2004). Sono gli anni delle visite-show in Italia e in Europa. Dei flirt con la Francia di Sarkozy, che un ruolo decisivo svolge per la liberazione della ventina di infermieri bulgari e dei medici palestinesi ritenuti “colpevoli” e condannati ingiustamente  per aver fatto diffondere, agli inizi del 1999, l’AIDS nell’ ospedale di Bengasi dove si trovavano 400 bambini. E’ come se la Libia moderna del rivoluzionario Gheddafi – ma anche quella  che nel 2011 ha visto la luce dopo la morte violenta del leader della rivoluzione del 1970, la cui lunga e dolorosa transizione è ancora in corso – non avesse mai fatto i conti fino in fondo con il proprio passato. O forse dipendesse ancora da quel passato.


Oggi gli attori principali della transizione sono la Turchia e la Francia (anche la Russia, il Qatar e l’Egitto). Che insieme all’Inghilterra, a partire dal 1912 fino al 1935, lasciarono quei territori che avrebbero costituito la Libia. E l’Italia coloniale prima delle deportazioni, dei massacri, della sperimentazione del gas nervino, fece grandi opere per la Libia.
Il nostro Paese e la Libia anche negli anni bui del regime di Gheddafi – la peculiarità di Gheddafi fu che fece più vittime il regime che il golpe che portò il Colonnello al potere nel 1970 – hanno avuto rapporti stretti. Anche se nel 1971 cacciò gli italiani dalla Libia aprendo a sua volta un contenzioso per le proprietà, gli immobili e quant’altro confiscati per un valore equivalente oggi ad almeno 3 miliardi di euro. E solo nel 2009, grazie al decisivo impegno dell’Associazione italiani rimpatriati dalla Libia di Giovanna Ortu, fu restaurato il cimitero di Hammangi che era in condizioni tragiche. Possiamo però parlare di “doppiezza” italiana dettata dalla ragion di Stato. A partire dal 1971, quando i nostri Servizi fecero saltare l’operazione Hilton – finanziata dagli inglesi che non avevano accettato l’estromissione dalla Libia della British Petroleum – bloccando a Trieste una nave carica di armi diretta a Bengasi dove l’opposizione a Gheddafi avrebbe dovuto lanciare una offensiva. E, come accertò nella sua monumentale ordinanza sulla strage di Ustica, il giudice istruttore Rosario Priore, sempre  tra il 1980 e il 1981 i nostri Servizi fornirono al regime l’elenco con gli indirizzi di 23 oppositori libici residenti in Italia, ipotizzando che lo facemmo in cambio della liberazione di diversi equipaggi di pescherecci sequestrati dai libici. E Gheddafi, dopo l’ultimatum che costringeva i dissidenti a rientrare in patria, diede l’ordine di eliminare chi disobbediva agli ordini. Tra Roma e Milano ne furono uccisi cinque e un paio feriti. Una soffiata italiana salvò la vita al Colonnello Gheddafi nell’aprile del 1986, quando Reagan mandò i missili americani a Sirte e Tripoli. Gheddafi si salvò la vita e la caserma tripolina di Bab al Azizia, dove si riteneva che si trovasse, fu centrata dai missili americani.
E chissà se fu avvisato anche la sera della strage di Ustica quando era in volo verso i Paesi dell’Est e un missile americano o francese invece di centrare l’obiettivo fece esplodere il volo Italia Bologna-Palermo. Il 3 ottobre del 2013 cambia il mondo dell’immigrazione, dei rapporti del nostro Paese con l’Europa. E il Mediterraneo si trasforma in un cimitero di migranti. Quel giorno i morti in un naufragio a pochi metri dall’Isola dei Conigli, a Lampedusa, furono 368. Una ecatombe, una strage, un massacro. Erano soprattutto rifugiati somali ed eritrei. Fu un dolore indimenticabile. L’allora presidente del Consiglio Enrico Letta (centrosinistra, profondamente colpito dalla dimensione della tragedia), diede vita all’operazione umanitaria più importante del nostro Paese. Da quel giorno, i migranti che sfidavano la morte sarebbero stati salvati dai nostri mezzi della marina militare, della guardia costiera, della Finanza.

L’uscita di scena di Gheddafi aprì una fase di transizione molto fluida, e dagli esiti tuttora incerti a nove anni di distanza (20 ottobre 2011) dal suo assassinio (si dice che il blitz fu gestito dai francesi). Se con Gheddafi i migranti erano merce umana da far pesare in un gioco politico e diplomatico, nella Libia che aveva ucciso il despota, i migranti rappresentavano una occasione unica di profitto. Con il calo della produzione del petrolio, il traffico di clandestini assumeva una voce importante della formazione del prodotto interno lordo. I vari clan e le milizie si autofinanziavano e si autofinanziano con il traffico di merce umana. E le violenze documentate dalle inchieste della magistratura italiana sono una vergogna dell’umanità.

Di Bac Bac