di Alfonso Lentini
Solo all’idea che tu possa esistere, caro Dio, mi viene da ridere; eppure vivo (o sopravvivo) grazie a quelli che credono in te e sono convinti che mi trovi in queste condizioni spaventose per merito della tua grazia. Perennemente a letto, febbricitante, distesa fra lenzuola sudaticce, ansimo e rimango viva in uno stato di dormiveglia o semicoma durante il quale mi sembra di vedere intorno al mio capezzale una folla di oranti, figure indefinite che si protendono verso il mio letto a mani giunte, con il rosario tra le dita. Stupefatti, avidi di prodigi, aspettano da me un qualche segno della tua grandiosa potenza. Mi chiedono di intercedere per loro. Di pregare per l’anima di uno o dell’altro. Una grazia, una guarigione miracolosa. Vincere al lotto, salvarsi da un tumore.
Ma io non ho fede e non prego, non posso pregare per nessuno. Eppure questo mio silenzio svagato, stemperato e reso accettabile dal dormiveglia, lo vedono come una sorta di estasi. E tutti continuano a stare in ginocchio davanti a me, con il rosario tra le dita, a chiedere, scongiurare, impetrare.
Le piaghe si rinnovano continuamente, grondano un sangue nero e grumoso. Dalla fronte, dai polsi, dai piedi, dal costato. Stimmate, le chiamano.
Per me sono solo piaghe dolorosissime. Ma loro credono in te e io col mio silenzio non faccio che assecondarli. Non so se sia una malattia o che altro, sta di fatto che sono spuntate proprio in quei punti là. Proprio ai polsi, ad esempio, fra le due ossa dell’avambraccio dove si dice che siano stati piantati i chiodi della passione squartando le braccia del Signore. E intorno alla mia fronte si è formato un piccolo firmamento di sangue rinsecchito come se fossi stata davvero incoronata di spine. Nel costato, proprio sotto la mammella, si è aperto un taglio netto, come se il mio torace fosse stato trafitto.
Mio marito regola le visite, ammette la gente a piccoli gruppi per non creare troppa ressa, ma la stanza è angusta e già cinque o sei persone con la confusione che ho in testa mi sembrano una gran folla. Gli altri aspettano nello stanzino attiguo alla mia camera, e intanto pregano davanti a una della tante immaginette sacre che ingombrano le pareti, costellate di lumini palpitanti nella penombra.
Regola le visite, mio marito, e intasca le offerte in denaro. No, lui non chiede soldi, però la gente offre lo stesso qualcosa, anzi più soffrono più soldi danno.
Non so cosa siano queste ferite, da dove provengano. I più malevoli dicono che sia io stessa a procurarmele con strumenti taglienti o addirittura versandomi addosso acido fenico o acido muriatico. Ma non è vero, non sono io a procurarmele. E non può essere nemmeno un fatto di autosuggestione, come dicono altri, perché io non credo ai miracoli e non ho la fede. Ormai ho perso ogni lucidità, galleggio in un dormiveglia lattiginoso; ma di notte, quando il mio stato di incoscienza diventa più profondo, mi sembra che qualcuno si avvicini al mio corpo, sollevi le lenzuola e frughi dentro le piaghe infilandovi unghie o punte acuminate di metallo per grattare via le croste e rinnovare il flusso del sangue. Dopo, questo qualcuno mi lava, mi cambia le fasciature che subito riprendono a macchiarsi di rosso. Le bende che mi ha tolto, invece, le espone stendendole su un ripiano di marmo pieno di lumini, fiori di plastica, rosari e immaginette sacre. La gente guarda con rispetto misto a ribrezzo quelle strisce sporche di croste essiccate e qualcuno ne chiede un frammento. Da quando sono in questa situazione, la casa sta andando in malora. Nessuno più pulisce, spolvera, mette in ordine. L’aria è impregnata di umori acidi, i sacchetti dell’immondizia ristagnano nel balcone, la polvere forma uno strato opaco su ogni oggetto. Mio marito beveva e credo che beva ancora oggi, figuriamoci se è capace di darsi da fare. Lui arraffa le banconote che la povera gente gli offre a piene mani e appena può scappa via a tracannare il suo maledetto vinaccio.
Un tempo ero bella, il mio corpo risplendeva di avvenenza e salute. Andavo in discoteca e sotto il vestito cortissimo indossavo solo un perizoma nero che assecondava la rotondità dei miei glutei. A tutto pensavo, non che sarei diventata un’immagine sbiadita della crocifissione. Mi chiamo Jessica, ora mi chiamano Jessica La Crocifissa.
Tu non puoi esistere, caro Dio. Se esistessi, perché permetteresti il pullulare di queste ulcere puzzolenti sul mio corpo di donna? Perché attueresti addirittura guarigioni prodigiose attraverso una mostruosità come questa? Un Dio che ha compiuto lo straordinario miracolo di creare l’universo intero non dovrebbe aver bisogno di misere commedie come quelle rappresentate dal mio fisico piagato per manifestare la sua potenza. Un Dio che ammette eccezioni, improvvise correzioni di rotta al destino che sembra aver assegnato a ciascuno, che “ci ripensa” facendosi intenerire da lacrimucce spremute da chi ha la strizza, è nel panico, si dispera e non sa più come gestire la sua ansia, un Dio che fa discriminazioni riservate solo a chi ritiene degno della sua grazia, non può essere un Dio vero. O non sei perfettissimo (e allora che Dio sei?), oppure, peggio ancora, sei capricciosissimo (e allora dov’è finita la tua somma giustizia?). Perché elargisci i cosiddetti miracoli solo ad alcuni? Io non riesco a capire come tutto questo possa chiamarsi “grazia”. Piuttosto mi sembra un arbitrio pazzesco, un capriccio assoluto. Che Dio sei, se esisti?
Poi mi sono ammalata e sono entrata in questa confusione. Ora i soldi arrivano da quelli che a mani giunte fanno corona intorno al mio letto, con il rosario tra le dita. Lui non ha più bisogno di lavorare né di rubare. Deve solo regolare le visite e ogni tanto accudirmi. Gaspare, il giardiniere, quel giorno ha aspettato che non ci fosse folla, in modo da entrare da solo nella mia stanza, è entrato e mi ha detto: ciao.
(Da “Caro Dio”, inedito)