di Guido Ruotolo
“Piccolo grande uomo”. Erano contenti per lo scampato pericolo, a Bengasi, e applaudivano quando pronunciavi il nome del presidente francese, Sarkozy. Erano passate poche ore dai bombardamenti francesi che erano riusciti a bloccare le colonne di tanks e di militari di ciò che rimaneva del regime di Gheddafi, che stavano per entrare a Bengasi. E la città, Bengasi, sembrava vivere un incantesimo. Alla periferia erano ben visibili le tracce dello scampato pericolo. Ancora un paio di trofei, tanks bruciati, ostruivano la strada. Ancora l’incedere veloce dei pochi che si avventuravano per le strade.
Neppure un’ora dopo l’annuncio della risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ecco l’aviazione francese volteggiare sopra Bengasi e mirare sui tanks gheddafiani sventando un massacro. Era il 19 marzo del 2011.
Parto poche ore dopo l’approvazione della risoluzione Onu per liberare Bengasi. Arrivo al Cairo e da lì noleggio un’auto con autista che mi porta a Bengasi. Un viaggio di 1.500 chilometri con una sosta notturna a Tobruk. Con l’incubo di incontrare gruppi di islamisti radicali e brigate della controrivoluzione.
Bengasi sembrava molto “emancipata” rispetto al buio di Tripoli, in quelle prime settimane della “Primavera araba”. Il venerdì la preghiera, l’Imam in piazza che recitava il sermone. E poi le testimonianze. Una piazza che si riempiva all’inverosimile con bandiere e striscioni. Venivano da tutta la Cerenaica in delegazione. E più che una piazza che pregava era la voglia di mettersi in mostra, di uscire dalla clandestinità, di proporre iniziative e di prendere coscienza dei guasti provocati dal regime.
Si viveva un clima rivoluzionario. Nascevano i primi giornali liberi, stampati in tipografie vecchie un secolo. E poi i comitati popolari, delle donne, delle vittime. In un albergo, con la divisa da generale, muoveva i suoi primi passi Haftar “l’americano”, perché aveva vissuto il suo lungo esilio dopo la guerra con il Ciad, proprio in America.
Inspiegabilmente, però, Haftar in questi anni ha tramato contro Tripoli con potenze arabe, la Francia, la Russia ma non con gli Stati Uniti. Che dopo l’omicidio dell’ambasciatore Chris Stevens (con una autobomba a Bengasi, l’11 settembre 2012), decise di non occuparsi in prima persona di un percorso di pacificazione della Libia.
In quei primi giorni di Bengasi, nell’era della primavera libica, ho conosciuto quello che ha rappresentato la miccia che ha acceso la santabarbara Libia. Un giovane avvocato dei diritti civili, Fathi Terbil, che rappresentava 30 delle famiglie che avevano avuto un loro caro tra le vittime della strage nel carcere di Abu Salim.
Gheddafi faceva fare retate di islamisti e li rinchiudeva in carcere senza dare ai detenuti la possibilità di parlare con gli avvocati o incontrare i familiari. Un giorno scoppia la protesta, e Gheddafi dà l’ordine di una pulizia etnica: tutti e 1.270 detenuti islamisti vengono trucidati a colpi di mitragliatore. Nel 2010, il governo ha riconosciuto il massacro e ha concesso un indennizzo di cento dollari per vittima alle 900 famiglie che avevano allegato alle domande il certificato di morte del loro caro. Alcuni familiari rifiutarono l’indennizzo.
Incontro l’avvocato Terbil in un albergo di Bengasi. Sprizza simpatia. È un leader laico di questa iniziale rivolta “arcobaleno” che con il passare del tempo avrà sempre di più il segno dell’islamismo radicale, in Cirenaica, e di vocazioni indipendentiste.
La rotta dei migranti che dall’oasi di Khufra portava carovane di migranti del Corno d’Africa verso la litoranea è ormai interrotta. L’odissea del popolo invisibile deve ritrovare il suo flusso e trovare una diversa via d’uscita. Terbil ricostruisce il momento in cui scoppiarono le proteste a Bengasi che porteranno alla caduta del regime di Gheddafi. “Per il 17 febbraio (del 2011, ndr) era stata proclamata una giornata di protesta per ricordare le vittime del massacro del 17 febbraio del 2006”, quando la protesta per la maglietta anti Islam del leghista Roberto Calderoli degenerò provocando decine di morti e la distruzione dello stesso consolato italiano. “In piazza quel giorno scesero chi voleva manifestare per le vittime del 17 febbraio, chi per il rispetto dei diritti umani, chi contro il regime di Gheddafi”. Due giorni prima della manifestazione l’avvocato Terbil viene arrestato. La sera stessa durante le proteste per l’arresto vengono uccisi tre manifestanti. Il giorno dopo il corteo funebre deve passare davanti alla cittadella murata delle forze dell’ordine per arrivare al cimitero.
Un grande piazzale. Il corteo tenta l’assalto ma muoiono decine di manifestanti. È la scintilla della rivolta. Nei miei giorni a Bengasi mi portano a casa dell’eroe della rivoluzione, a conoscere i figli del martire. Il loro padre era un ingegnere che lavorava nell’industria petrolifera. Con tutti quei morti nella polvere dello spiazzale, l’ingegnere decise di sacrificarsi. Imbottì la sua auto di bombole di gas. Si mise alla guida, attraversò lo spiazzale e puntò dritto alle mura della cittadina delle forze militari e di polizia. L’esplosione aprì una breccia nel muro e gli insorti riuscirono a entrarvi. Di morti, in quelle ore, se ne contarono 232.
Molti bengasini parlano l’italiano. Ne ricordo due, preziosissimi amici, Abdul, architetto, una vita a Padova, e Fathi, manager della sanità, che ha studiato al DAMS di Bologna. Con loro ho conosciuto la Cirenaica che nei dieci anni di frequentazione della Libia dell’era Gheddafi mi era stata interdetta perchè pericolosa. È vero, pur se tutta islamista, la Libia di Gheddafi è stata nello stesso tempo la meno integralista. Ricordo a Tripoli il vescovo Martinelli e la Chiesa di San Francesco che si riempiva di migranti soprattutto filippini ma anche africani. Messe cantate con cesti di cibarie in dono sotto l’altare. Anche nei momenti bui a Tripoli è stato garantito il diritto di dire messa.
A Bengasi e nella Cirenaica, invece, l’Islam era molto praticato. La regione confina con l’Egitto e si avverte molto il condizionamento della Fratellanza Musulmana. A Derna, sul mare, venne proclamato il Califfato, e nel tempo la Cirenaica si è trasformata in un alveare dove trovavano rifugio i militanti dell’Isis di ritorno dai teatri di guerra, Iraq e la stessa Siria.
Terribili le immagini sulla sabbia dei 23 lavoratori egiziani copti-cristiani legati con le catene, in tuta arancione, decapitati dall’Isis. E i fedelissimi di Gheddafi nella loro Sirte fecero alleanza con gli islamisti radicali per non cedere ai lealisti del governo Serraj di Tripoli la città. In quelle settimane di marzo con i miei amici di Bengasi ricordo due “spedizioni”. Una al fronte, dove si combatteva. Ad Ajdabjah. Nella regione strategica dei terminal petroliferi. Nell’ospedale della cittadina ricordo un giovane combattente islamista, con il barbone nero e una gamba amputata. Sorrideva.
E poi in un’autofficina alla periferia di Bengasi dove si stava costruendo il prototipo di lanciarazzi che sarebbero serviti per contrastare le truppe di Gheddafi. Dunque dai carri pesanti di Gheddafi venivano smontate le batterie di lanciarazzi, divisi e tagliati, venivano rimontati sui pi-kup.
Sono trascorsi quasi dieci anni. Finalmente adesso si intravede una via d’uscita. La tregua regge. Il generale Haftar nei fatti è messo da parte. Se tutto procede senza imprevisti tra un anno si svolgeranno libere elezioni. E nel frattempo la coabitazione tra rappresentanti di Tripoli e Bengasi al potere, dovrebbe garantire finalmente un futuro a questo paese martoriato.
È impressionante che nonostante il conflitto, la guerra, le milizie armate, negli ultimi cinque anni sono sbarcati in Italia trecentomila immigrati. Migliaia sono annegati, tanti, violentati. Non c’è guerra che cancelli questa vergogna umana.