di Pepi Burgio
Ha detto una volta Ezra Pound che un uso sovrabbondante della aggettivazione tradisce una conoscenza insicura della specificità che ogni attributo possiede. Ciò è sempre vero, lo è in particolare per la poesia, dove lo spazio angusto destinato al suo farsi in forma contratta, determina una qualità ineffabile, assai diversa dallo svolgersi della prosa.
Avamposto sul confine, nuova raccolta di poesie di Vito Bianco, reca intanto la virtù della parola appropriata e della maniera asciutta nel comporre versi accurati, talvolta di forte suggestione; per proiettare poi sugli aspetti minimali della realtà un chiarore appena abbozzato, che tuttavia distorce gli oggetti per affidarli a un misterioso destino simbolico.
Hanno un pregio le poesie di Vito Bianco, sanno di novecento ma si danno un linguaggio autonomo di pacata efficacia espressiva. E quando qualche verso sembra sostenga la vana tentazione di cogliere possibili ascendenze, ecco si impone un’acutezza tutta speciale nell’osservare le cose ordinarie del mondo, trattate con equilibrio formale elegante ed asciutto.
In quest’ultima raccolta sono presenti fra l’altro atmosfere pop di impronta contiana, versi omogenei ad una poesia che rende gli oggetti in cose restando fedele a una sobria costruzione retorica.
Avamposto sul confine è in gran parte un errare incessante attraverso i confini desolati delle città (Sono soltanto uno dei pastori./ Cammino/ con la bisaccia che mi pesa sull’anca), un peregrinare fra le nebbie e i tram, in un Pronto Soccorso, nei caffè al riparo dal freddo o nelle sale d’aspetto delle stazioni, dove intirizzita vaga un’umanità dolente che regge con dignità la croce che le è stata assegnata. In Avamposto sul confine c’è il dire poetico che dona senso a un girare senza scopo; c’è perfino un incredulo bisogno di trascendenza per offrire uno spiraglio ad un difficile ascolto; c’è infine l’amore agli uccelli e il rimpianto dei luoghi un tempo onorati dal lavoro. Ma tutto questo mi sembra di averlo una volta avvertito, sarà stato un romanzo di Testori, o un certo quadro di Sironi? E poi c’è una perla, fra le più intense dell’intera raccolta, Lettera a mia madre:
Taglio corto. Anche troppo
ti ho fatto penare quando c’eri,
da quando a tre anni volevo
a ogni costo un manichino
e urlavo come un torturato.
Da un anno abito sul mare
(adesso che scrivo mi respira sul collo)
solo,
senza nemmeno un gatto.
Faccio quello che riesco a fare:
leggo, veglio,
imparo piano a scomparire.
Mi torni in mente a lampi,
quando non ti aspetto,
mai alla stessa ora.
Sembra un secolo, o un minuto;
le lancette le ho nascoste nelle ossa.
Ovvero, il valore di un richiamo essenziale, negli anni amari del pensiero in rovina.
(l’articolo è stato pubblicato su Suddovest il 13/01/2021)