“Tutto quello che non so l’ho imparato a scuola” L. Longanesi
di Vito Bianco
“Stai scherzando” dice Giovanni, arrotando la r, quando gli comunico che quella è l’ultima volta che ci vediamo. Siamo in biblioteca, ed è lì che Marisa, la referente per il sostegno, è venuta a cercarmi per riferirmi che le maestre dell’altra terza le hanno chiesto di avere meno ore con me. Strano, perché appena tre giorni prima una di loro aveva chiesto e ottenuto che il giovedì facessi da loro tutte e quattro le ore previste dal mio orario, anziché solo le ultime due della mattina. Per via di Michele, aveva detto Marisa, il bambino svogliato e irrequieto che non ha voglia di imparare e spesso disturba i compagni di classe che seguono le lezioni.
Nessuno mi aveva consultato, né la maestra Beatrice con la quale mi sembrava di aver stabilito un rapporto di amichevole collaborazione, né la referente Marisa, una sessantenne calma e sicura di sé sempre pronta a citare il saggio di un pedagogista o un decreto ministeriale o un convegno sul trattamento didattico del bambino dva. Allora cosa è successo? È successo che nel corso di un incontro con i genitori di Michele, un Michele particolarmente ipercinetico e persino aggressivo, ho osato proporre una strategia alternativa all’estenuante trattativa-imposizione- lusinga adottata sinora, sulla base di un episodio che mi faceva ben sperare: Michele che di sua libera volontà prende una riduzione illustrata di Pinocchio e comincia a leggere, e quando arriva all’ultima pagina ricomincia, come se avesse avuto subito di nuovo voglia di riascoltare le parole delle storia durata un tempo troppo breve.
Ricordando in treno quell’ avvenimento, unico nella non lunga storia scolastica di Michele, avevo pensato che si poteva forse provare a non imporgli nulla per una decina di giorni, assecondando il suo desiderio di corse e di salti sul materasso dell’aula morbida, nella speranza che alla fine fosse lui stesso a chiedere di leggere o di fare gli esercizi di aritmetica o ripassare un capitolo di storia. L’idea, ovvia, è che non si può costringere nessuno a imparare; che si impara solo ciò che ci interessa, incuriosisce, appassiona. Che insomma il verbo imparare, per dirla con Pennac, manca dell’imperativo. Come amare, leggere, sognare.
Ma questo, a quanto pare, nella scuola italiana, non si può dire. Qualcuno segretamente forse lo pensa, ma non lo dice nemmeno al collega del quale più si fida. Io, che sono un ingenuo (un poeta, direbbe la maestra Filippa, che da anni insegna ai bambini che il paleontologo è l’aiutante dello storico perché “c’è scritto sul libro di testo”) l’ho detto ogni volta che è capitato, senza rendermi conto che quello che dicevo veniva registrato dalle menti ignoranti e scandalizzate dei miei casuali colleghi, incapaci di immaginare un altro modo di insegnare e una scuola capace di mettersi nei panni dei bambini, di aspettarli, di ascoltare quello che hanno da dire, da farfugliare, da inventare.
Michele per loro è un irritante caso di ordine pubblico. E nella scuola conformista, pigra, banale, noiosa e costrittiva che insegnanti come loro continuano a perpetuare nonostante le didattiche innovative e persino rivoluzionarie che sono state proposte e praticate negli ultimi cento anni, anche lui deve adeguarsi al modello, produrre la sue brave paginette da mostrare ai genitori, anche se di quelle pagine compilate di malavoglia e quasi sempre con l’aiuto dell’insegnante di sostegno non ha capito nulla. In più Michele è un Franti, un Pinocchio, non fa nulla per rendersi simpatico, dice apertamente quel che pensa, e prima di tutto dice che non ha voglia di imparare, che viene a scuola per giocare.
Un bambino come lui, che non somiglia affatto all’ideale rassicurante del bambino buono simpatico e ubbidiente con cui siamo soliti trastullarci, è una pietra di inciampo, il granello di sabbia che manda in tilt la ben oliata macchina dell’apprendimento seriale, posto che il principio indiscutibile è che a scuola si viene per imparare, o a fingere di imparare, che per la macchina scolastica è la stessa cosa.
Che le insidie, i problemi, gli ostacoli potevano venire solo dagli adulti lo avevo capito quasi subito. Una decina di giorni dopo il mio arrivo il maestro di italiano della terza del plesso centrale mi aveva sussurrato all’orecchio che per i corridoi della scuola si diceva che lavoravo male, che facevo troppe domande.
Curioso, avevo fatto soltanto una lezione con i miei due bambini, e di domande non ne avevo fatte, forse perché mi aspettavo di essere istruito su un qualche aspetto della didattica di sostegno che un neofita ha il diritto di ignorare, o messo al corrente dei particolari problemi dei giovanissimi scolari dei quali avrei dovuto occuparmi.
Nessuno però mi aveva dato suggerimenti o istruzioni, neppure la referente, dalla quale naturalmente sarebbero dovuti arrivare. Gettato nella mischia senza tanti preamboli avevo passato una settimana in una quinta prima di partire con le mie due classi e l’orario definitivo.
La calunnia (che è un venticello) meschina partita dall’educatrice Valeria con la quale una sola volta avevo condiviso un’aula per una doppia lezione di aritmetica cubetti e abaco era arrivata al maestro tramite la referente, che da 13 anni fa coppia fissa con Valeria, con la quale ahimè avrei dovuto continuare a lavorare.
È superfluo dire che una meschina catena di maldicenza non è proprio quel che si dice un caloroso benvenuto, ma superato lo sconcerto che mi aveva condotto a un passo dall’abbandono, scopro che l’osso più duro è la piccola maestra Milena, malmostosa, irritabile, toni militareschi e sgridata facile, perfetta incarnazione dell’efficientismo didattico che non guarda in faccia nessuno, nemmeno i bambini con evidenti e certificate difficoltà di apprendimento, dai quali pretende la stessa velocità di esecuzione del resto della classe.
A nulla serve ricordarle l’ovvio, una cosa che già sa e che dovrebbe sapere. Quando un pomeriggio mi rimprovera in presenza della classe perché non sono stato abbastanza rapido da copiare sul quaderno dei mie due bambini uno schema che aveva disegnato alla lavagna e dopo pochi minuti cancellato, capisco che la misura è colma. Chiamo Marisa e le comunico che la mia permanenza nella scuola è legata a una condizione: non dover più condividere l’aula con la signorina Milena.
Marisa dice che ho ragione, che ha fatto così con tutte le maestre di sostegno che negli anni sono arrivate e poi ripartite anzitempo, stanche di subire le sue cattive maniere, delle quali le principali vittime sono ovviamente i bambini. “Ho provato a farle cambiare approccio” continua Marisa, “ma non c’è stato niente da fare”. “È sola” aggiunge, “infelice, forse”.
Questa conversazione, durante la quale mi pare di avvertire una certa sintonia umana e intellettuale, preludio a una possibile futura amicizia, la facciamo martedì alle sei di sera. Due giorni prima della riunione virtuale con i genitori di Michele. Due giorni prima della proposta che non avrei dovuto fare. Che non avrei dovuto nemmeno pensare di fare.
Venerdì mattina, senza nemmeno aspettare l’intervallo delle dieci, Marisa si affaccia alla porta delle biblioteca dove io e Angelo cerchiamo di fare un po’ di geometria, e mi fa segno che mi deve parlare. “Di là hanno chiesto di avere meno ore con te” mi dice con la voce bassa e rauca che faccio fatica a sentire. “Dicono che con te non riescono a lavorare”.
Per un attimo non capisco. Poi capisco. La riunione della sera prima. La proposta scandalosa, che però il papà di Michele non ha trovato tale, il suggerimento didattico che Beatrice ha sprezzantemente definito “filosofia”, il disprezzo dell’ignorante che non sa che la filosofia ha cambiato più di una volta il corso della storia. Potenza del luogo comune, o dell’insipienza lessicale, scegliete voi.
“Mi dimetto” dico, guardandola sconsolato, “troverete uno bravo”; e un istante dopo capisco che stava accadendo qualcosa di incredibile: due insegnanti che chiedono a una terza di indurre alle dimissioni un collega più debole e isolato. Marisa non dice nulla, mi volta le spalle e sparisce. Missione compiuta.
L’ironia della storia è che Beatrice è l’insegnante con cui avevo il rapporto migliore, quella alla quale avevo confidato i turbamenti delle prime settimane. Quella che si era complimentata per il modo piacevole e divertente con cui avevo spiegato alla classe la differenza tra vivere in montagna e vivere in pianura. La stessa Beatrice alla quale avevo portato le filastrocche ancora inedite che usciranno tra qualche settimana e che dedicherò ai bambini con i quali non ho potuto arrivare alla fine dell’anno. La stessa?
“Stai scherzando” ripete Giovanni, tornando dal suo giro intorno alla stanza piena di libri disposti sugli scaffali bassi di legno e ammucchiati su un tavolo grande al centro dello spazio. Lo guardo e faccio no con la testa. Non sa più che dire. Non capisce. Chissà se si ricorderà di questa mattina. Lo accompagno giù e lo lascio andare senza salutarlo. Poi vado alla stazione a prendere il treno per Cadorna, attraversando per l’ultima volta il sentiero morbido di foglie morte, rami spezzati e fango.