di Nuccio Dispenza
Leggevo di insulti e minacce alla senatrice a vita Liliana Segre. Ieri si era vaccinata a Milano, con parole che invitavano a farlo, ad essere generosi con chi ci sta attorno. E leggevo che mentre la Segre – forte dell’esperienza che si porta sulla pelle – dispensava parole di solidarietà e ottimismo per giorni migliori, lei più che novantenne, in Rete si scatenava il popolo degli hater con insulti e minacce alla senatrice sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti, con i fascisti complici servili. Intolleranza e una buona dose di ignoranza.
Leggevo questo quando un passaggio ai social mi portava alla realtà agrigentina. Altra dimensione, certo, ma indicativa del tempo. Qualcuno aveva postato una foto fatta da un balcone affacciato su piazza Ravanusella. Si vedevano delle persone, come dire, “a consulto” davanti al motore di un’auto, probabilmente con dei problemi. Chi postava la foto la indicava come prova del degrado della piazza e delle strade circostanti. Nella fattispecie, seguendo l’ordine dei commenti e delle repliche al post, l’accusa sostanziale, prima, era quella macchia di olio che sarebbe rimasta sul selciato della piazza. Probabilmente non la prima. Da quella foto si partiva per mettere sotto accusa il mondo degli immigrati che si è composto attorno alla piazza, abitando nel quartiere che si alza dalla piazza, da decenni in abbandono, per colpe non extracomunitarie, direi, ma indigene. Abbandono da intestare a quelle amministrazioni locali che si sono intestate l’incapacità di ridare un antico senso alla piazza, un tempo cuore pulsante della vecchia Girgenti, come ricorda una bellissima foto che di tanto in tanto torna in Rete: una distesa di tavole di pomodoro lavorato per la conservazione. Una foto straordinaria e bellissima.
Torniamo al post e ai commenti. Tra i primi a contestare l’equazione della foto è Alessia. La conosco, spende bene la sua vita facendo ogni giorno più profondo il solco della solidarietà. Ne accompagniamo il lavoro ormai da un anno, e sappiamo il tanto che lei – e con lei tanti altri – sta facendo in città. Impegno costruttivo, che significa crescita della comunità. Sono percorsi che creano valore, plusvalore. Nei commenti c’è chi non lascia sola Alessia, chi sottolinea come una macchia d’olio può sporcare, certo, una piazza che merita di più ma che le responsabilità del degrado e dell’abbandono che lì accomunano piazza e umanità, vanno cercate altrove. “Almeno, quegli uomini della foto si sono trovati qualcosa di lecito da fare”, scrive qualcuno, magari sottacendo il tanto illecito che loro fratelli consumano quotidianamente. Un altro commento a quegli uomini suggerisce, in caso di guasto, di chiamare il carro attrezzi. La replica: quanti di noi sono rimasti fermi in strada con un problema al motore o al sistema elettrico? Quanti di noi si sono fatti aiutare da chi passava, da chi chiamava al telefono per un cavetto che lo facesse ripartire? Pregiudizi, lettura semplicistica condita nella migliore delle ipotesi da ignoranza, nella peggiore in malafede.
Alla fine degli anni Ottanta, per alcune settimane mi capitò di vivere in Polonia. Il Muro non era caduto, mancavano molte cose e tra queste i pezzi di ricambio delle auto. Quando qualcuno aveva un problema, attorno all’auto si raccoglievano in tanti, quelli del palazzo, quelli del quartiere. Assieme studiavano la soluzione, la povertà aguzza l’intelletto, porta alla soluzione. Stessa cosa ho vissuto nell’interno della Tunisia. C’ero per lavoro, con il collega operatore, uscivamo da una zona desertica. La nostra auto a nolo si ruppe ai margini di un villaggio. L’assembramento che si creò, compreso un prezioso calzolaio, e la decina di pareri sul da farsi, risolse il problema. Partimmo con loro che salutavano sorridenti dopo aver rifiutato un regalo, del denaro.Foto ricordo di quadri con protagonista la solidarietà, non l’egoismo e la diffidenza. Tornando al piccolo”assembramento” di piazza Ravanusella attorno al motore di una vecchia ma preziosa auto di lavoro, sono il primo a dire che quella piazza e quel quartiere meritino di più. Ma la risposta non è la deportazione di quelle famiglie che li vivono, magari costretti a pagare affitti da latrocinio, il problema è l’incapacità della nostra città di realizzare un progetto per l’accoglienza che proceda pari passo col recupero del centro storico, non solo urbanisticamente inteso. Quella piazza è senza idee da decenni quando invece è una tela straordinaria sulla quale dipingere il futuro. Qualche volta è stata, invece,riempita di parole, raramente di fatti, esclusi pochi esempi di privati, piccoli interventi dell’amministrazione. Invece, forse è lì che si dovrebbe inaugurare una coraggiosa stagione di progetti capaci di cambiare il volto della città restituendola a bellezza smarrita e a valori umani dimenticati. Questo non richiede “normalità”, ma straordinarietà. Di questo dovremmo preoccuparci, questo si dovrebbe chiedere e contribuire ad ottenere. Agrigento non è certo fermata, frenata e affondata da una, due macchie di olio, da un capannello di uomini poveri alle prese con un grande problema, da famiglie che cercano di ricostruire la vita lontani da casa, navigando tra pregiudizi e difficoltà dopo essere sopravvissuti alle onde alte.