di Nuccio Dispenza
“Mai vista una fila così lunga. Io da qui ci passavo sempre, in moto, per andare al lavoro…Ora lavoro da casa…Ma mai, in tanti anni avevo visto file così lunghe”. A parlare è un giovane agrigentino. L’ho sentito per avere una conferma di quel che mi propone una foto di cronaca che arriva da Milano. “C’è chi attende da solo in fila. Sono uomini, donne, anziani, italiani e stranieri. C’è chi è accompagnato dai figli. Qualcuno trascina il carrellino. Tutti hanno sul volto la mascherina”. Così scrive l’Ansa a corredo della foto. Viale Toscana, il Campus della Bocconi, incrocio di una Milano ricca ben rappresentata dall’architettura lungo la quale si snoda l’esercito dei nuovi poveri. In fila, centinaia, per avere l’aiuto di “Pane Quotidiano”, istituzione che ha vissuto i poveri di epoche diverse. Un tempo a dominare la fila era il nero della pelle di chi era scappato dalla fame e si ritrovava a vivere un’altra fame, certamente più spietata di quella attraversata al villaggio. Perchè qui condita da contrasti, diffidenze, inimicizie ciniche perchè coltivate nell’humus della peggiore politica. E l’altra politica, timida, perchè certe scelte coraggiose, potrebbero pagarsi nell’urna. E’ così è accaduto che la politica cattiva si è ingrassata, l’altra politica si è rinsecchita lo stesso. Una gran folla, moltiplicata dalla crisi legata alla pandemia. Ogni sabato così all’ombra della Bocconi Milano. Mai tanta gente, dicono a “Pane Quotidiano”. Da Milano a Roma, scene analoghe. A Roma, uno dei riferimenti di chi ha fame è al quartiere Flaminio, a due passi dal maestoso Auditorium e del bellissimo Maxxi. Nella porticina che sta accanto alla chiesa la fila è lunga e si modella in modo che la gente possa continuare a passare senza ostacoli. Prima bastava mettersi in fila, questione di dieci, quindici minuti, ed era il tuo turno. Ora la gente è tanta, c’è chi spinge, c’è chi urla, qualche piccolo contrasto. Fame e disagio sono un mix doloroso, il minimo è che si urli. Per fare ordine, i volontari distribuiscono un numero, così la fila si può anche spezzare. Qualcuno siede sui gradini della chiesa, altri siedono sul marciapiede, al sole. Se il tempo è brutto si tiene aperta la parte antistante la chiesa, coperta. Le code dei poveri, quando la povertà viene allo scoperto, si impone ai nostri occhi, alle nostre passeggiate in bici per sfuggire alla “prigionia” di questo impensabile tempo che ci pesa con un eccesso che suona oltraggioso a fronte di quel che vivono questi uomini e queste donne.
Gabriele Del Grande qualche anno addietro fece un viaggio nella città degli invisibili e dei senza dimora. Lo fece a Natale, a cavallo tra un anno che se ne andava e quello che veniva. In quel suo racconto c’era la storia di Jaque, un ragazzo congolese incontrato in una delle mense romane per i poveri, all’Aventino, uno dei quartieri di Roma più belli ed esclusivi per viverci. Parrocchia di Sant’Alessio, qui l’incontro con Jaque, congolese di Kinshasa che giunto in Italia si fa chiamare Giacomo. In Italia dalla metà degli anni Ottanta, vincitore di una borsa di studio all’università per stranieri di Perugia. Poi, iscrizione alla Sapienza di Roma fino alla laurea in Ingegneria. Anni difficili per gli immigrati. Perduto il permesso di soggiorno, Jaque entra in clandestinità, tra Roma e Torino, dove aveva lavorato come metalmeccanico, alla Fiat come quelli che negli anni della ricostruzione a Torino c’erano arrivati dal Sud. La clandestinità, le notti alla stazione Ostiense, un pasto caldo offerto dalle monache carmelitane. Quando Del Grande fece questo viaggio, annotò: “C’è una ressa di persone, donne e uomini ammucchiati sotto quel portone verde si spingono l’uno sull’altro. C’è chi ha paura di rimanesse senza, c’è chi vuole fare il giro due volte…”. E racconta di scene analoghe al centro di viale Castrense e a quello di San Giovanni. A Viale Castrense, polacchi, rumeni, donne russe di mezza età. Del Grande vive tutto facendosi senzatetto tra i senza tetto. Fa la fila per la minestra, la fila per una doccia. Stazione Termini, i volontari di strada portano dei panini: “Conosco Laurenzio, un ragazzo rumeno sulla trentina. E’ ubriaco, vuole insegnarmi il rumeno”. Più in là un ragazzo africano che barcolla ed impreca. Via Marsala, ingresso delle Poste, ci dormono in trenta, una griglia di ferro è meno fredda e umida del pavimento di cemento, annota Del Grande. Ci sono tutti i colori e le povertà del mondo. Molti hanno fatto la stessa strada: la Libia, il mare, Lampedusa. Un ragazzo liberano canta, sono canzoni di lotta. Ad unirli, una spianata di cartoni, preziosi. Gabriele Del Grande ne scrisse che era l’inizio del 2005. Pandemia a parte non è cambiato molto. Tanti più italiani.