di Tano Siracusa

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Che sia argentino risulta dal passaporto, nato a Buenos Aires nel 1964, ed è quello che lui va raccontando a tutti quelli che gli domandano se sia spagnolo. MaradonayCortàzar, scandisce sprofondato nella poltrona del suo piccolo studio in via Madrid, con un torpido gatto rosso sul tavolo, per tenere a bada i topi, dice lui.
Parla con gli animali ed è un poeta, una specie di cantautore da quando si è lasciato convincere a mettere in musica i suoi versi e ha comosciuto Andrea, un virtuoso del sax che suona di tutto, dal rock a una musica sperimentale riservata a un pubblico ‘d’avanguardia’ dice lui sbrigativamente, sonorità elettroniche che utilizza spezzando e disarticolando gli accenni di melodia.
I due si sono intesi subito a meraviglia. Immersa nelle sonorità astratte, divisa dagli inserti della tromba o del violino, la voce di Francisco acquista un magnetismo, un’apertura di senso che le nude parole dei suoi testi, secondo Pablo, spesso non hanno. Intanto il pubblico dei locali un po’ underground, frequentati da trentenni alcolizzati e sessantenni alla deriva, ha apprezzato.

Se il presente di Francisco sembra non completamente decifrabile, il suo passato è invece immerso in un alone di leggenda. Ogni tanto, soprattutto quando esce dal caffè per una vacillante passeggiata dopo un paio di gin tonic, nel flusso di improvvisati vaniloqui filosofici o della recitazione di testi in rima (le due cose a volte si sovrappongonoo in una maniera destabilizante per un ascoltatore prevenuto), lascia cadere un breve ricordo, come un inciso, di quella volta che Isidoro Porta lo aveva recensito sul El Pais o di quando Pedro Mirabile gli aveva chiesto di pubblicare su una sua rivista prestigiosa a Montevideo.

Qualche riscontro alle sue frequentazioni letterarie passate è stato trovato. Perfino una fotografia che lo ritrae, molto più giovane e magro, con il volto allungato da una barba alla Dylan accanto a quella nera e mefistofelica di Fernando Balibar.

Certo non si capisce bene come faccia a campare. L’appartamento affittato nella parte vecchia della città vale almeno 400 dollari al mese. Spesso va a mangiare in un paio di trattorie economiche mentre nei locali del centro passa gran parte della sua giornata bevendo caffè e gin tonic. Non abbastanza vecchio per essere un pensionato, ogni tanto parla di certe sue proprietà a Rosario, della sua pratica con i cavalli, di quando esportava quei nobili animali in Perù. Si dilunga sulla sua familiarità con tutti gli animali, anche i volatili, anche gabbiani e gazze ladre,dice, perfino i pipistrelli, non i topi e neppure i pesci, con i quali non parla, dice scherzando.

La sua unica attività sembra quella artistica: poeta, attore, potenziale cantantautore di nicchia sostiene Pablo che, pur apprezzando la collaborazione con Andrea, ritiene che i testi sarebbero perfetti per canzoni sgorbiate e orecchiabili, come quelle di un paio di cantautori molto famosi in Italia (ma sconosciuti oltreoceano) che cita spesso.

Francisco, invece, dell’intesa con Andrea appare soddisfatto, di quei suoni fra i quali le sue parole affondano e riemergono, a volte come creste spumeggianti quando la sua voce si impenna per risalire l’onda sonora del sax o quella più sorda, a tratti sovrastante, emessa da una prodigiosa scatoletta elettronica che riempie la stanza di un acuminato, dissonante mescolarsi di suoni, voci, rumori.

Francisco? L’ho sentito parlare di Kant, che peraltro non ha mai sudiato, ad un gatto che lo seguiva per strada come un cane, le dice Pablo guardandola nei grandi occhi verdi, sperando di impressionarla e assaporando le erre che avrebbe arrotato rispondendo.

Clarie ha un sorriso affascinante, un po’ maliardo. No, no no, risponde, Francisco è grande gracile e trasparente come una sfera di cristallo. Pablo rabbrividisce per il piacere.

Mi sembrano tutti ubriachi anche quando sono sobri, dice spesso Pablo dei suoi amici, ma Francisco, che di sicuro beve, obietta che bisogna chiedersi se non sia il proprio sguardo ad essere quello storto. Nel suo studio pieno di libri e di quadri di sera tardi c’è sempre qualche artista per lo più malandato, trentenni allo sbando per svariate ragioni, amici che però amici non sono sostiene lui, tranne i presenti naturalmente, quasi come a Buenos Aires, perchè laggiù era tutto un parlarsi alle spalle, un guardarsi alle spalle, uno stare a guardare, ma guardar es como proteggersi, custodire, tenere a bada, sorvegliare, claro? però, dice, usano mirada, la mirada de su amante y mi cuerpo desnudo, Freud Sartre Pirandello, quel corpo desnudo y ciego, puro oggetto e lo sguardo e il sadismo, entiende? dice intonando la voce, el sujeto y el objeto, il carceriere e il carcerato en el mirar prudente, armado, las silenciosas armadas de lo los ratones, ormai Francisco scandisce le parole con ampi gesti, en el jardìn de encantos los perros llegan / en la luna blanca los ratones bailan.

L’ idea di una esibizione al Parco è venuta a Clarie durante un incontro prolungatosi fino a notte inoltrata.

Quella volta Francisco e Andrea hanno improvvisato, Francisco recitando uno dei suoi componimenti meno sensati, una filastrocca con molte rime e tutta in rigorosi settenari, Andrea battendo il tempo su dei tamburi marocchini. Clarie, che aveva accennato dei passi di danza, alla fine ha applaudito.
Pablo la guardava come sempre a bocca aperta, aspettava che parlasse arrotando le erre, gli piaceva da morire quel suo accento parigino. E infatti si è illuminato quando Clarie ha detto che sarebbe stato meraviglioso realizzare una performance a Parco de Los Ratones, loro due e tu, Pablo, che li riprendi con la videocamera. Tutto un meraviglioso arrotarsi di erre.

In effetti il Parco era stato anni prima una delle mete preferite delle loro passeggiate, quando ancora sulla danzatrice parigina Pablo si faceva delle illusioni. Francisco vi aveva declamato una sua cosmogonia in ottave, che forse perchè in lingua basca era piaciuta anche a Pablo, ma nessuno aveva pensato di potervi girare un video. Anche perchè nel frattempo l’abbandono e la scomparsa dei cani randagi avevano favorito la formazione di una colonia di topi. O forse era vero il contrario.

Una performance, dunque. Andrea, Francisco, Clarie, e Pablo a girare il video: sicuramente l’ora tarda, la vodka che alla fine qualcuno aveva tirato fuori, hanno convinto tutti che si poteva fare.
L’esibizione è stata decisa per domenica pomeriggio, verso il tramonto.

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C’è un cartello scritto a mano, con un divieto d’accesso che nessuno rispetta.
Qualcuno sostiene che qui si scaricherebbero tensioni, energie negative, che vi è stata secoli fa una grande frana e vi erano poi apparsi animali mai visti prima, gatti che volavano da un ramo all’altro degli eucalipti come scimmie, forse per paura, pipistrelli e topi che cospiravano, moltitudini di topi che complottavano. Secondo altri l’abbandono del parco è un destino alimentato da queste leggende.

In Messico, spiega Francisco, dondolando il suo grande corpo sui piedi troppo piccoli, i cani entrano ed escono dalle chiese. Nessuno li caccia, sono anche loro creature di Dio. Anche in Cile è così. Ho scritto un breve poema su questo, si vamos a parar dos minutos

Pablo, che tiene d’occhio la luce dorata del tardo pomeriggio, decide che è meglio raggiungere prima i ruderi.

Arrivando hanno solo incrociato un signore in tenuta sportiva che correva.

Hombres y ratones, cierto, dice Francisco, gli uomini e i topi con i quali non si ragiona da milioni di anni, quando i lupi azzannavano ancora le pecore e neppure loro volevano ragionare, vamos, vamos como perros de calle, dice, lungo i viali invasi dalla vegetazione, gli impianti sportivi abbandonati, i rifiuti, sbarre di ferro arrugginito che escono dal cemento corroso come ossa dissepolte, vasche di amianto, graffiti deliranti, alcuni osceni; e gli olivi, i carrubi, gli oleandri, l’ acacia, il fico d’ India, l’agave, le palme, i pini e gli eucalyptus, la vegetazione che rompe la crosta di cemento da cui è ricoperta da 50 anni, lentamente disfacendo la fatica degli uomini, mostrandone l’insensatezza, con un po’ di pazienza dice Francisco, se puede ablar con los ratones, ma non si ragiona con loro, no tienen razon, mentre con la coda dell’occhio Pablo ne vede uno scendere a precipizio una scala e sparire nella sterpaglia.

I cani, sentenzia Francisco, se ne sono andati, cacciati por los ratones, parece ser miles, esto porque con los perros de calle no se hicieron amigos. I topi non hanno fatto amicizia, no les gustaban spiega. Con loro, dice, no se puede razonar.

Contro il fogliame degli oleandri inselvatichiti ondeggia la sua sagoma scura nel controluce. Il sole ormai colora di arancio la cava di tufo, i palazzotti che la sovrastano, le piante, gli alberi polverosi, gli arbusti e infine i resti di un cementificio abbandonato quaranta anni fa che giù, in fondo all’ultima scarpata, si apre sulla spiaggia come un palcoscenico, e poi il mare che subito avvolge le alghe attorno alle caviglie.


Andrea ha portato un flauto. Sulla piattaforma di cemento sorgono degli edifici sbrecciati, diroccati, magazzini, forse spogliatoi, una costruzione centrale su cui svetta, un po’ sbilenca e arruginita, una struttura in metallo. L’acustica è buona, solo ogni tanto lo scoppio lontano di un’onda. Pablo si accorge che Clarie è un po’ troppo lontana, ma le si avvicinerà ai primi passi di danza.


Quando Andrea comincia a suonare dando le spalle al mare Pablo lo inquadra contro la luna, enorme, lucente e bianca, come se fosse stata proiettata sullo schermo del cielo dal sole appena tramontato.


Poi si sposta per avvicinarsi a Francisco, i riccioli dei suoi capelli e la barba alla Bakunin in primissimo piano, la voce che scandisce, o forse canta ‘andiamo, andiamo nelle valli bianche di luna / rock fra le macerie e le barricate / rap e Vivaldi cornamuse e gitani / vamos a mirar las caras tristes y feroces de los gatos / las sonrisas borrachas de los ratones…


Il flauto di Andrea si spegne su una melodia schubertiana, uno di quegli adagi malinconici che il musicista austriaco affidava soprattutto al violino. Subito dopo dalla scatoletta elettronica di Andrea esplode una sarabanda di note dissonanti a un ritmo indiavolato che Clarie danza in quella lenta esplosione di luce bianca; salta, forse fugge, è inseguita fino a quando il frastuono ritmato si interrompe bruscamente su una lunghissima tremante nota bassa del violoncello, minacciosa, presaga. Pablo adesso può riprendere Clarie da vicino, è ormai ai suoi piedi.

LLegan los ratones, vuelven a su valle y la luna es un sol blanco, ascolta adesso Pablo e sembra una canzone mentre inquadra i baffi che vibrano del primo, a testa in sù. Poi accanto altri due, altri quattro, e poi attorno sulla spianata di cemento, sui muretti sbrecciati, a grappoli, centinaia, migliaia di topi che si affollano sulle rovine, silenziosi, i loro movimenti minimi, il tumulto immobile, i loro piccoli occhi che brillano alla luce alta, accecante della luna.
Ora nel silenzio Clarie ha posato un ginocchio per terra, curvandosi fino a poggiare la testa sulla gamba rimasta tesa.
Pablo inquadra i baffi frementi, la bocca che ha cominciato a rosicchiare il cappello di paglia lasciato da Clarie per terra accanto alla borsa aperta, hablan entre sì, pero non tienen razon recita o canta Francisco, e l’altro topo adesso, più grande, che con una lunga coda spelacchiata si avvicina al piede scalzo di Clarie; si avvicina a scatti, ingobbito, come in un vecchio film in bianco e nero, perro de calle, perro guardian que mira ovejas, Pablo inquadra la curva della schiena di Clarie, il suo arco perfetto. Inquadra occhi che sembrano punte lucenti di spillo.

Di Bac Bac