I ricordi più lontani di Francesco risalgono al periodo delle elementari. In casa non c’era la televisione e, dopo la scuola, le giornate scorrevano in strada a giocare a tunneddru, crapapanza, toccaferro, gravachiummu, strummula, ammucciammucciarè, papalanzicula, cu i cciappi, cu carruzzuni; ma quest’ultimo era un lusso che solo alcuni potevano permettersi. Il gioco che interessava di più Francesco era quello dalla cciappa: in una parte della piazzetta di quartiere si collocava una piccola pietra squadrata (u tollu) dietro cui si sistemava un mazzetto di figurine raccolte tra i partecipanti; il gioco consisteva nel lanciare sul tollu, dalla distanza di una decina di metri, una cciappa (una pietra levigata, dalle dimensioni di una mano, capace di scivolare bene sul selciato non sempre regolare) per farlo saltare. Vinceva la posta chi riusciva a posizionare la propria cciappa tra il tollu e le figurine. Era un gioco di abilità più mentale che fisica, in cui bisognava calibrare la forza del lancio in relazione alle dimensioni della cciappa e del tollu, alla resistenza del pavimento, alla distanza del lancio, al posizionamento delle cciappe degli altri giocatori. Più che un gioco, quasi un esercizio di fisica. Fu grazie alle tante partite vinte che riuscì a riempire gli album di figurine della Panini.
Si giocava anche a pallone, ma solo la sera, quando le strade erano libere dal transito di muli asini e carretti. Nella comitiva dei ragazzi del quartiere vigevano le rigide regole del branco, con il capo che decideva come giocare, chi poteva giocare e che ruolo ognuno poteva svolgere: stare in porta, in attacco, oppure limitarsi a raccogliere la palla quando veniva scagliata lontano. Il capobranco, che generalmente era quello più forte, furbo e sfacciato, veniva fuori da una selezione naturale che toccava diverse prove di virilità. Una era la zuffa: due ragazzi si affrontavano di fronte al branco disposto in cerchio attorno ai duellanti. Ognuno dei due contendenti cercava di buttare a terra l’avversario e di immobilizzarlo. Si andava avanti fino a quando uno dei due non dichiarava la resa e, quindi, riconosceva la supremazia dell’altro. Un’altra prova consisteva nella pisciata collettiva che escludeva i più timidi ed introversi e quelli che avevano il complesso del pene piccolo, dal momento che comportava l’esposizione della nudità di fronte agli altri.
Poi c’era la prova più impegnativa, quella che verso i 12 anni segnalava il passaggio dall’infanzia alla pubertà: la masturbazione di gruppo. Essere ammessi a quel rito rappresentava l’ingresso nel mondo degli adulti. Si vedevano in un posto riparato, o strazzuni, e si sedevano in cerchio con al centro qualche fumetto erotico allora in voga tra i ragazzini, aperto nelle pagine di un amplesso della protagonista (Vartàn, Messalina, Bonnie). Dopo una chiacchierata preliminare sul tema dell’incontro (“ti crisceru i pila?” “t’addivinta cchiu grossa?” “ti curri?”) e sulle virtù femminili della protagonista del fumetto (“minchia ch’è bona” “talè com’è misa” “u saccio i, chi ci facissi”) si passava all’esercizio fisico. Ovviamente, era più ganzo chi veniva per primo e chi eiaculava più copiosamente, magari sopra le pagine del fumetto. Qualche anno dopo, con l’arrivo dei sexi film, il rito venne ripetuto dai più sfrontati al buio della sala cinematografica, al momento dell’immancabile doccia della protagonista. Francesco non era molto estroverso e partecipò raramente e di malavoglia a queste attività del branco, ma riuscì a conquistare il rispetto dei compagni grazie alla sua dedizione allo studio, che gli consentiva di aiutare i meno volenterosi nei compiti e di suscitare la loro riconoscenza. Inoltre, la sua bravura nel gioco delle cciappe gli conferiva non pochi punti nella graduatoria del branco. Così si mise al riparo dal bullismo dei più grandi che, purtroppo, era capace di raggiungere con i malcapitati vette di derisione sprezzante ed offensiva e non di rado travalicava nella violenza fisica.
L’adolescenza
La prima svolta della sua vita avviene verso i 13 anni: i genitori comprano una casa nuova e la sua famiglia si trasferisce in un altro quartiere, in prossimità della piazza cittadina: l’occasione per iniziare una nuova esistenza. Scopre il cinema, che cominciò a frequentare assiduamente ogni settimana, facendo scorpacciate di film ispirati alla mitologia greco-romana. La domenica, ammassato tra la folla, entrava in sala nel primo pomeriggio e ne usciva a sera inoltrata, fantasticando di mondi lontani, con la testa piena di immagini e di sogni. Anche la biblioteca del paesino divenne uno dei luoghi più familiari. A casa non c’erano libri, se non il sussidiario, il libro di antologia e qualche fumetto. La biblioteca era affascinante con le sue sale piene di libri. A Francesco piaceva il profumo dell’inchiostro e della carta stampata, l’atmosfera formale degli avventori, il silenzio ovattato che faceva scordare il fracasso della via, l’aria austera del sindaco – un anziano partigiano – che ogni tanto faceva capolino tra i banchi di lettura elogiando i ragazzi presenti: “Il popolo deve istruirsi se vuole mantenere e accrescere la sua libertà”. Allora il prestito libri non era concesso e lui passava molti pomeriggi in un angolo appartato, lontano dall’ingresso e dal chiacchiericcio del custode, a leggere su un piccolo tavolo. Il primo libro che lesse fu “Dalla terra alla luna” di Jules Verne: era il periodo del primo allunaggio delle missioni Apollo. Avrebbe voluto avere molti libri, gli piacevano come oggetti da guardare e da sfogliare, ma forse anche perché pensava ingenuamente che il semplice possesso fosse anche un modo per acquisire sapere e cultura. Così decise di acquistare l’enciclopedia universale Utet a fascicoli settimanali: il suo primo investimento rilevante.
Accrebbe la sua passione per i fumetti e conobbe nuovi eroi di carta: il ranger-capo indiano dei navajo Tex Willer; lo spirito con la scure Zagor Tenay; il patriota dei lupi dell’Ontario, il Comandante Mark; e poi, il grande Blek Macigno, Topolino, Diabolik, Alan Ford e tanti altri. L’edicola di Pilu Russu (dai capelli rossi del proprietario) era situata al centro della piazza ed era frequentata da diversi insegnati e professionisti della città, che spesso si attardavano in quel piccolo locale discutendo di politica, di fatti internazionali, di cinema. A Francesco quel luogo dava l’idea di un vero e proprio cenacolo culturale, a differenza dei vari circoli cittadini (il circolo dei commercianti, il circolo dei civili – così autoproclamatosi per il presunto superiore livello di civiltà dei suoi avventori – il circolo degli appassionati di calcio) che, a dispetto del termine culturale inserito nei loro statuti, erano sostanzialmente luoghi dove si giocava a carte e si spettegolava sui fatti dell’attualità cittadina. Andando a comprare qualche fumetto, a Francesco faceva piacere trattenersi in quell’ambiente raccolto per guardare le copertine delle riviste, sfogliare i fumetti che non avrebbe potuto comprare e carpire qualche brandello di conversazione dell’intellighenzia locale. (Una pena oggi vedere le edicole chiudere una dopo l’altra).
A casa non c’era la televisione e l’appuntamento dei ragazzi era, in prima serata, alla Casa del Popolo per assistere alle avventure di Zorro. A seguire la sala diventava appannaggio dei più grandi per i commenti al telegiornale: proprio così, perché il telegiornale non si ascoltava in silenzio ma si commentava in diretta: se le notizie erano buone, si levava un mormorio generale di approvazione; se appariva sullo schermo un politico sgradito si faceva a gara con gli improperi; se era successa qualche tragedia si dava spazio alla commozione e al pianto, come nel caso del terremoto del Belice. Quel televisore in bianco e nero, uno dei pochi in città, situato su un trespolo alto nel salone più grande, con le immagini spesso traballanti, per ricevere il solo canale tv allora disponibile, era una attrazione irresistibile per tutti quelli che non avevano le possibilità economiche per acquistare un apparecchio (la quasi totalità allora): la sala era sempre piena, con molti spettatori all’impiedi.
L’estate, come tutte le famiglie contadine, anche la sua si trasferiva in campagna per dedicarsi di buona lena alle necessarie lavorazioni agricole: la trebbiatura dei cereali, la raccolta di mandorle e pistacchi, la vendemmia, la raccolta degli ortaggi. Di grande importanza per l’economia familiare era la conservazione e trasformazione di diversi prodotti per l’uso invernale: i pomodori raccolti nelle scocche, le conserve di pomodoro, le chiappe di pomodoro,le teste d’aglio intrecciate, i meloni purceddru appesi al tetto con una retina di spago, le fave spicchiate preparate per il macco, i fichi secchi per i buccellati, la cotognata, l’ogliu piricò, le olive acciurrate, etc… Pur capendo le necessità della famiglia, quei tre mesi di vita contadina erano molto pesanti per Francesco, che doveva privarsi di tutto quello che aveva appena assaporato: il cinema, la televisione, i libri. La riapertura delle scuole all’inizio di ottobre era attesa con impazienza, perché segnava il ritorno in città.
Il “Gruppo” e la politica
A 14 anni incontrò la politica. Aveva cominciato a frequentare la Casa del Popolo con la sezione del Partito Comunista e il circolo della FGCI (Federazione Giovanile Comunista Italiana). Era un edificio molto grande: tre piani e un interrato, più un giardino interno di aranci e limoni, che spandevano profumi per tutto l’anno. Francesco amava quel posto: poteva vedere la televisione nel salone delle riunioni; sfogliare i quotidiani e le riviste nella sala lettura (ovviamente solo la stampa di sinistra: l’Unità, l’Ora, Giorni-Vie Nuove, Rinascita); giocare a carte, ping-pong, dama o scacchi. Quest’ultimo gioco divenne il suo preferito, tanto da portarlo qualche anno dopo ai campionati nazionali dell’Arci-Uisp. Aveva scelto gli scacchi perché è una disciplina dove vincere non dipende dalla buona sorte, ma dalla propria strategia e dalla capacità di studiare e neutralizzare le mosse dell’avversario: insomma, sono la logica e il ragionamento a prevalere, e non il caso e la fortuna che governano molti altri giochi. Quello gli era congeniale anche perché consentiva di vedere le cose dal punto di vista dell’ordine più che del disordine.
Digiuno di politica e di comunismo, si inserì sempre più in un gruppo dove, diversamente dalla competizione del branco di fanciullesca memoria, prevaleva lo spirito comunitario, il sentimento di solidarietà, il rispetto delle persone, la condivisione di idee e valori. Era il più piccolo e divenne la mascotte del gruppo. Seguendo le riunioni dei compagni più grandi, apprese l’importanza dei principi democratici e dell’antifascismo e le nozioni elementari del comunismo come società di uomini liberi e uguali. In quella fase la sua è una visione agiografica del comunismo e del “socialismo reale”, acquisita con i paraocchi del dogma ideologico. Solo più tardi svilupperà una capacità critica che gli consentirà un approccio più consapevole.
È questo il periodo in cui conobbe il cinema di impegno sociale: nel salone delle riunioni si teneva periodicamente il cineforum dell’Arci dove, con l’uso di un proiettore 16 mm e per schermo la parete bianca, venivano proiettati film come Il sasso in bocca, Il bandito Giuliano, Il giorno della Civetta, Le mani sulla città. Momento importante era la partecipazione alla scuola di partito, tenuta dai compagni più preparati, di cui erano protagonisti anche gli emigrati al nord che portavano l’esperienza della vita di fabbrica e delle lotte operaie. Nella stanzetta al terzo piano, regno dei giovani comunisti, si preparavano i volantini da distribuire a scuola e il giornalino ciclostilato, cantando ed ascoltando insieme musica diversa da quella che passava in televisione: De Andrè, De Gregori, Guccini, Lolli, il cantastorie Franco Trincale, gli Inti-Illimani, i canti cubani (era fortissimo in quel periodo il mito della rivoluzione cubana e del Che, a cui era dedicato il circolo giovanile). Solo più tardi, per merito di alcuni compagni universitari che avevano partecipato al sessantotto, scopriranno la musica rock e i grandi raduni giovanili degli anni sessanta. Conoscevano poco l’inglese e si sforzavano di tradurre i pezzi più famosi, ma coglievano appieno la valenza anticonformista e libertaria della musica rock, e in qualche caso anche la sua carica di protesta civile e di passione politica. In particolare, resteranno affascinati dal festival di Woodstock, Three days of peace & rock music, con i musicisti e i gruppi tra i più noti che suonarono ininterrottamente per tre giorni davanti a 400.000 spettatori, all’insegna dei valori della Beat Generation: pace, fratellanza, amore libero, viaggio (sia fisico che psichedelico). Videro diverse volte il film girato durante il concerto e riprodussero in musicassette i brani eseguiti, per riascoltarli assieme infinite volte e fantasticare di vita in comune, di mete lontane e di amori straordinari. Ovviamente divenne d’obbligo la lettura di On the road di Jack Kerouac.
Francesco ricorda ancora l’emozione del suo primo articolo pubblicato sul giornale del circolo: il viaggio con l’autostop nel capoluogo per recarsi nella sede della Federazione attrezzata per la stampa, la preparazione delle matrici, il ciclostile a manovella da girare a turno, l’impaginazione e rilegatura alla buona. Poi, finalmente, ecco venir fuori quell’opuscoletto mal confezionato, a volte stampato con l’inchiostro un po’ sbiadito: oggi sembrerebbe un obbrobrio ma a lui sembrava un capolavoro da custodire orgogliosamente.
La campagna elettorale
In campagna elettorale, la sera il Gruppo (cosi tutti chiamavano quella comunità di amici) andava ad affiggere i manifesti, coprendo regolarmente quelli della Democrazia Cristiana e facendo attenzione ad impedire ai fascisti di mettere piede in paese, anche solo di passaggio. Dopo la mezzanotte, finita l’affissione e la “difesa” dei manifesti da eventuali atti di ritorsione di altri gruppi politici, andavano a cantare e mangiare assieme al Villaggio, appena fuori città: un’insalata preparata con qualcosa portata da ognuno: pane, pomodori, lattuga, olio e un bottiglione di vino erano sufficienti; se c’erano un po’ di soldi, magari si compravano delle sarde da cuocere sui “canali”. Quello era il luogo e il momento giusto per il cazzeggio: si poteva discutere a lungo sulle grazie di Barbara Bouchet e Edwige Fenech, dividendosi tra chi apprezzava di più la bellezza nordica della prima (partito capeggiato dallo Smilzo) e chi preferiva le forme mediterranee della seconda (partito del Pingue). Francesco era tra quest’ultimi. Qualche volta erano presi dalla voglia di giocare. Allora, nella piazza deserta, si creava un lungo serpentone per una tavolalonga; oppure gli andava di chiacchierare facendo lunghe passeggiate sul corso, fino ad arrivare al limitare della città, dove li aspettava una bevuta di acqua sorgiva alla fontana storica. Forse pensavano che fosse anche questo un modo per preparare la rivoluzione e costruire la società socialista. Ma, per quanto avesse un peso rilevante, non vivevano di sola politica. C’era il gusto, ma anche il bisogno di vivere insieme. Se l’inverno si passava all’interno della Casa del Popolo, l’estate aveva un duplice scenario: il giorno, la rotonda della piazza centrale (in verità erano dei gradoni ad emiciclo, ma qualcuno l’aveva chiamata rotonda e così fu); la sera, il villaggio fuori città, una collina alberata dove era stato costruito un teatro all’aperto. Quello resterà il luogo dell’anima: vi si svolgevano la festa dell’Unità con i suoi dibattiti e gli spettacoli; le feste e i cineforum dell’Arci organizzati dal Gruppo; le rassegne teatrali gestite dal Comune.
Il primo viaggio
Il primo viaggio di Francesco arrivò l’ultimo anno di liceo, destinazione il festival nazionale dell’Unità. Un viaggio in economia, organizzato con i pochi soldi racimolati con alcune giornate di lavoro nei bar della città, in occasione della sagra paesana, o come aiutante di un amico imbianchino. Il programma del viaggio era semplice: partiva con due compagni, fornito di un biglietto ferroviario chilometrico valido per 3.000 km su tutta la rete ferroviaria nazionale, quando sarebbero rimasti solo i soldi sufficienti per l’ultimo panino, avrebbe preso il primo treno utile per tornare a casa. Come alloggio era sufficiente un sacco a pelo e una tenda da piantare nel campeggio gratuito interno al festival. Quanto al vitto: partiva con un salsicciotto di salame di oltre mezzo kg e alcune scatolette di carne e di tonno. Per il resto si sarebbe arrangiato alla meglio centellinando i pochi soldi disponibili. Le cose andarono meglio del previsto: la solidarietà che incontrò si rivelò inaspettata e commovente. Non appena si diffuse la voce che tre compagni che venivano dal profondo sud si trovavano a corto di denaro, ci fu una gara di solidarietà per invitarli a cena e qualcuno offri anche un comodo alloggio, consegnando le chiavi della propria casa. Che cosa straordinaria, pensò Francesco: il fatto di essere compagni li trasformava da semplici sconosciuti in fratelli a cui offrire tutto l’aiuto possibile.
Il festival si rivelò una cornucopia piena di tesori: i concerti dal vivo dei più importanti cantautori che aveva ascoltato per anni; gli stand dei movimenti rivoluzionari di tutto il mondo (evitò quelli dei paesi del “socialismo reale”, pieni solo di opuscoli e immagini di propaganda fastidiosa); la sala di proiezione dove passò due interi pomeriggi a guardare i filmati musicali dei Beatles e dei Rolling Stones; le conferenze dei principali dirigenti della sinistra, fino ad allora visti solo da lontano. La generosa ospitalità dei compagni permise a Francesco di realizzare un avanzo di 30.000 lire, che gli consentirono una breve digressione nel viaggio di ritorno, per partecipare al concerto del chitarrista e cantante blues B.B. King, che si teneva al festival di Umbria Jazz.
Tornato al paesino, aveva l’aria di chi avesse fatto il giro del mondo e partecipato ad una personale Woodstock.
Il nuovo circolo
Il Gruppo aveva costruito una comunità di idee e valori con orizzonti collettivi trasformati in un progetto di vita. Il loro senso di comunità raggiunse l’apice con la costituzione di una cooperativa per la gestione di due serre, per la produzione di prodotti tipici del territorio, e di una libreria. “Terra e istruzione”: un binomio perfetto per quelli come loro che erano figli della civiltà contadina, ma aspiravano ad una nuova consapevolezza sociale e ad un diverso modo di produrre e consumare, con attenzione agli equilibri naturali, alla distribuzione del lavoro e della ricchezza. Le nuove pratiche di vita, la crescita culturale (in questo è suo grande mentore il professore di storia e filosofia del liceo, a cui resterà sempre grato), le suggestioni dei movimenti pacifisti e ambientalisti, portarono Francesco e gli amici ad intraprendere una nuova esperienza politica. Era il periodo del governo di unità nazionale, frutto della strategia del compromesso storico lanciata da Enrico Berlinguer, che aveva portato per un breve periodo i comunisti in maggioranza con la Democrazia Cristiana. Le rispettabili intenzioni del segretario del PCI di unire le tre componenti principali della Resistenza antifascista (comunisti, socialisti e democristiani) per costruire un argine alle ricorrenti tendenze golpiste della destra e al terrorismo di sinistra, spesso si tradussero in periferia, specie nel Meridione, in un consociativismo di governo caratterizzato dalla spartizione sistematica della cosa pubblica: assessorati, appalti, concorsi, incarichi, consulenze e quant’altro.
Il Gruppo decise di traslocare in massa in una nuova sede nel centro cittadino, dando vita alla sezione Josip Broz Tito del PdUP (Partito di Unità Proletaria per il Comunismo), che sarà tra le più importanti a livello regionale. Avevano pensato di dedicare la sezione al presidente jugoslavo perché vedevamo Tito come un leader possibile di un socialismo rinnovato e dal volto umano. Il modello jugoslavo sul piano economico-sociale (ispirato ai principi dell’autogestione operaia) e sul piano della politica estera (Tito era il leader più importante dei paesi non allineati) era visto come una possibile terza via tra socialismo reale e socialdemocrazia. C’era anche la ricerca di un nuovo internazionalismo basato sul protagonismo dei paesi emergenti, in grado di superare l’antagonismo del terrore tra Usa e Unione Sovietica. L’ambasciatore jugoslavo, informato dai vertici del PdUP, fu compiaciuto di questa scelta e promise un gesto di attenzione. Francesco e gli amici sperarono in un invito a visitare il paese, ma restarono molto delusi nel ricevere un consistente pacco di scadenti libri di propaganda politica.
Vive in questo periodo le prime esperienze sentimentali, ma su questo tema Francesco era molto riservato. Forse non sapeva amare, oppure aveva un modo contorto, tutto suo, di vivere le diverse relazioni sentimentali in cui si andava a cacciare. Mai una storia semplice, ammesso poi che esista una semplicità in amore. Le sue erano sempre storie complicate. Amare e soffrire nella sua vita erano sinonimi. Per cui, non avendo mai rinunciato ad amare, aveva accettato di buon grado di soffrire.
La comune universitaria
La tanto vagheggiata vita comunitaria trovò una concreta realizzazione con il trasferimento nel capoluogo per intraprendere gli studi universitari. Andò a vivere in un vecchio palazzo del centro storico, in un appartamento con una decina di stanze e due letti per camera, che diverrà per cinque anni il punto di riferimento per tutto il Gruppo: per chi vi abitava stabilmente, ma anche per i tanti amici di passaggio in città o per quanti, pur abitando altrove, si aggregavano per gli incontri serali, le mangiate e le riunioni. Si condivideva quasi tutto: l’affitto, il cibo che arrivava a ciascuno dal paesino, la spesa quotidiana (preferibilmente nei mercatini popolari), i lavori di pulizia (senza esagerare), il tempo libero dallo studio, l’attività politica. Grazie alle battaglie delle precedenti generazioni per il diritto allo studio, Francesco poté usufruire di una discreta borsa di studio, frequentare la mensa universitaria ad un costo irrisorio e giovarsi di tutta una serie di convenzioni universitarie che gli consentivano l’accesso ad una quantità di servizi gratuiti o a prezzi abbordabili: emeroteca, sala di ascolto musica, cineforum, libri scontati, teatri e cinema a prezzo ridotto. Fu un momento ricco di stimoli culturali. Finalmente poté coltivare la passione per il cinema e il teatro partecipando alle rassegne dei grandi autori internazionali, presentati nei diversi cinema d’essai o nella sala dell’opera universitaria; alla stagione di prosa del teatro nazionale; alla messinscena del melodramma e dei balletti del cartellone di uno dei più prestigiosi teatri europei.
In politica, fu il periodo delle grandi mobilitazioni pacifiste contro l’installazione degli euromissili nucleari nelle basi militari americane in Italia. I movimenti studenteschi universitari furono in prima linea nell’impegno pacifista, organizzando le grandi manifestazioni nella base di Comiso e a Roma. Storico il corteo del 22 ottobre dell’83 che vide arrivare in piazza San Giovanni un milione di manifestanti. Fianco a fianco militanti della sinistra, sindacati, gruppi cattolici, suore e frati francescani, ambientalisti, antimilitaristi, alternativi, centri sociali. Il Gruppo c’era al completo: con aria allegra e festosa, attrezzato con cappellini, fazzoletti rossi, fischietti e bandiere arcobaleno. Erano partiti il giorno precedente con un treno speciale stracolmo organizzato dal movimento pacifista, avevano discusso di politica, inventato slogan e dormito alla meglio, ammassati negli scompartimenti o distesi nei predellini portabagagli, avevano cantato, bevuto e fumato.
Poi giuse l’89, con il crollo inglorioso dei paesi del socialismo reale e di una esperienza politica che aveva creato tante speranze: prima fra tutte quella di poter cambiare il mondo, di renderlo più giusto. Ma di certo quel crollo non ha rappresentato la fine di un sogno, di una prospettiva alternativa di sviluppo economico, di rapporti sociali, di relazione tra le persone. L’esigenza di un nuovo umanesimo è rimasta intatta, ha solo bisogno di nuove intelligenze e nuovi progetti e consapevolezze, a partire dai limiti fisici dell’attuale modello di sviluppo.
Gli anni successivi saranno quelli terribili della guerra di mafia, delle stragi di “cosa nostra”, dei servitori leali dello stato assassinati in modo brutale, degli apparati deviati, dei depistaggi, della crisi della democrazia con la dissoluzione dei partiti storici. Sull’onda dell’emergenza democratica e della lotta alla mafia, il Gruppo aderisce al Movimento per la democrazia–La Rete. Sarà quella l’ultima scelta politica collettiva prima dell’arrivo dei movimenti populisti e della seconda repubblica. Poi il Gruppo comincerà a perdere pezzi fino a dissolversi, la cooperativa verrà sciolta e le attività economiche liquidate. Il rapporto tra Francesco e gli altri cominciava ad indebolirsi, fino ad esaurirsi del tutto con alcuni. I motivi riguardavano scelte di lavoro che comportavano il trasferimento in sedi lontane, in qualche caso anche l’incompatibilità delle nuove relazioni familiari. Ma in diverse situazioni si trattava di scelte di vita individuali degli amici che si discostavano da quei valori e quello stile di vita che avevano abbracciato da giovani.
L’età della ragione
Anni dopo il disfacimento del Gruppo, nell’attualità dominata dalla precarietà, dalla fragilità sociale, dall’alienazione e dalla solitudine; in un sistema capitalistico dove evapora la figura classica del padrone in carne e ossa e si afferma il dominio dell’algoritmo; in questo malinconico tempo presente l’insoddisfazione, che era sempre stata un’ingombrante compagna di viaggio, diviene tangibile nella vita di Francesco.
Pensa spesso ad un dialogo tra Adamo e il Padreterno, come immaginato in un’opera di un suo caro amico scrittore. Adamo, dopo aver lasciato il paradiso, passa le sue giornate alle prese con il faticoso lavoro nei campi. Una sera, stanco e solitario, deluso dalla piega che aveva preso la sua vita dopo il promettente inizio nel giardino divino, si rivolge al cielo per cercare il conforto del padre. Immaginando che dall’alto una voce gli chieda “come stai?”, sconsolato esclama “comu voli ca staiu, unnu vidi ca sugnu sulu?”.
Anche se, a pensarci bene, Francesco non è solo: ha tanti amici in giro per il paese, nelle varie città che frequenta per esigenze lavorative. Quello che manca è la sensazione di far parte di una vasta collettività con cui condividere un orizzonte ideale e un progetto di vita. Pertanto, pur nella delusione del presente, conserva intatto l’orgoglio di aver fatto parte di una comunità che “aveva saputo alzare lo sguardo ad un futuro lontano e ad una storia gigantesca”.