di Vito Bianco
Nella luce fioca della lampadina notturna la sua pelle ha zone lucide quasi trasparenti che possono far venire in mente la luminosità opaca delle carrozzerie metallizzate di certe macchine, ma il volto ovale con le labbra rilevate, umide e gentili, forse perché si sotttrae al chiarore aranciato ha ombre scure sulla fronte e sul mento, mentre gli zigomi sporgenti risaltano per un tenue rossore adolescenziale che trovo ogni volta commovente.
Lei dorme e io benedico l’insonnia che mi regala la possibilità di contemplarla con una intensità e un abbandono che di giorno non posso concedermi. E ora che con lo sguardo sfioro la sua bocca, il piccolo seno, le mani grandi abbandonate sul ventre duro e liscio come l’ossidiana, non posso fare a meno di esultare per il dono di un incontro sperato ma imprevedibile che ha trasformato la mia vita.
Se fossi più giovane parlerei di amore a prima vista, ma l’esperienza mi ha insegnato che l’amore vero è un esercizio quotidiano di comprensione o, se preferite, un puzzle le cui tessere, equamente divise, devono incastrarsi l’una nell’altra fino a completare la figura che sono destinate a comporre. Ne ho conosciute tante di coppie che, dopo l’euforia delle prime settimane, si sono allontanate e perse perché incapaci di capire che il matrimonio si fonda più su quello che decidiamo di tacere che su quello che diciamo, più sul silenzio che sulle parole.
Eppure non posso negare che l’attrazione per Beatriz è stata immediata, insieme al desiderio irresistibile di conoscerla e alla curiosità di sapere di lei tutto ciò che è umanamente possibile sapere di un’altra persona.
La prima volta che l’ho vista, al Mariposa, non era sola. Era in compagnia di due amiche, giovani come lei e non meno belle.
Ma la bellezza di Beatriz non ha a che fare solo con la proporzione e l’armonia delle parti, ma rivela un nucleo misterioso che turba chiunque ne incroci lo sguardo anche solo per un attimo.
Da quella prima volta, potrei dire che non ci fu momento della giornata in cui non pensassi a lei: il suo sguardo verde limone come perso a inseguire chissà quale insolubile enigma esistenziale mi accompagnava dall’alba al tramonto, e più di una volta fui sorpreso dai colleghi a fissare un punto sulla parete con la tipica espressione di chi è volato sulle nuvole.
Sei innamorato, Victor?, mi chiese una mattima Carlos. Che idea!, risposi, esagerando lo stupore. Ma come ti viene in mente? Da un po’ di tempo sei distratto, perdi il filo di quello che stai dicendo, non ascolti. E bada che non sono l’unico ad averlo notato. Devo fare una fotocopia, dissi, lasciando cadere il discorso e sperando che Carlos non si fosse accorto del mio imbarazzo.
Dovevo rivederla. Così, per riprovare l’emozione di quello sguardo passavo tutti i fine settimana al Mariposa, sopportando la musica ripetitiva e puerile e la calca rumorosa che si spostava da un piano all’altro di quell’enorme costruzione colorata dove la notte non arriva mai e la vita sembra avere il peso di un’ala di farfalla sul palmo di una mano.
Per due mesi diventai l’adoratore timido e paziente che ogni donna sogna, il corteggiatore silenzioso e discreto che aspetta fiducioso l’occasione propizia. Ma l’occasione non arrivava mai. Lei non c’era sempre, e quando c’era non era mai sola.
Poi una domenica mattina, mentre bevevo un succo di pompelmo al tavolo di uno dei numerosi locali del Mariposa la vidi finalmente sola. Indossava una gonna corta azzurra e una canottiera bianca di cotone; calzava sandali rossi e grigi e i capelli biondi e sottili erano tirati indietro e legati a coda da cavallo da un fermaglio nero brillante. Era nello stesso posto della prima volta, ma qualche metro più avanti. Mi alzai e mi mossi nella sua direzione; sentivo che era arrivato il momento tanto atteso e che mille volte avevo anticipato con la fantasia.
Lei mi vide arrivare ma non si mosse. Forse chinò un po’ la testa, ma non potrei giurarci; o può darsi che, per darsi un’aria indifferente, abbia fatto finta di cercare qualcosa nella borsa che le pendeva da una spalla. Sono però sicuro che evitò di guardarmi mentre camminavo a passi decisi verso di lei, spinto da una volontà che sembrava provenire da un corpo sul quale non avevo alcuna padronanza.
Quando la raggiunsi, appoggiai la carta di credito sul lettore dell’espositore e digitai il mio nome. Lei disse: Ciao, sono felice di conoscerti. Mi chiamo Beatriz. Il tono era caldo, morbido, con una lieve sfumatura metallica. Quella inaspettata imperfezione, anziché deludermi mi fece tenerezza. Sono mesi che ti guardo da lontano senza trovare il coraggio di avvicinarmi, dissi, sfiorando con le labbra la membrana rotonda del microfono, che emise un sibilo simile al ronzio di un’ape. Non così vicino, disse Beatriz, la distanza giusta è due centimetri.
Non sapevo cos’altro dire. Abbassai lo sguardo e quando lo riportai all’altezza dei suoi occhi verdi lei disse: L’avevo notato, e mi chiedevo quando ti saresti deciso. Sei molto carino. Sorrise. Era sincera, o l’avrebbe detto a chiunque? Vorrei che venissi con me Beatriz, non sono ricco ma non mi manca nulla: ho una casa spaziosa, una macchina e un lavoro noioso ma sicuro. Lei disse che sperava tanto di sentirmelo dire. E aggiunse: A me basta poco, Victor.
Lasciammo il Mariposa mano nella mano, attraversando controcorrente la folla domenicale. Gli uomini, incrociandoci, posavano su Beatriz rapide occhiate di ammirazione e desiderio che mi riempivano d’orgoglio. Oltrepassammo le doppie porte di vetro ad apertura elettronica e ci ritrovammo sotto il vasto cielo azzurro di mezzogiorno. Abbracciai la mia nuova compagna e sentii l’odore della sostanza sintetica di cui erano fatti i suoi capelli.
Qualcuno me ne aveva parlato, ma era la prima volta che lo annusavo. Inebriato da quell’insolito profumo, fui pervaso dalla certezza che da quel giorno non sarei più stato solo.