di Nuccio Dispenza
E’ la prima domenica davvero calda, e la prima che può farci pensare che forse ne usciremo davvero dalla pandemia. Ci ha fatto paura, ci ha detto quanto siamo fragili, quanto indifesi, ci ha consigliato di cambiare il mondo, noi stessi, di smettere tante certezze.
La Villa di Livia ha l’erba ben rasata, gli alberi sono quelli dei profili romani, pini che si alternano a cipressi, querce, arbusti di ginestra.La spianata suggerisce quel che era un tempo. Certamente giardini, della villa di Livia Drusilla, appunto. Livia, moglie dell’imperatore Augusto. Villa di straordinaria bellezza, aveva stanze con alle pareti dipinti a giardino, per rendere più serene le giornate di chi ci viveva. Tecnica finissima di affresco. Dello splendore della villa di Livia parla Plinio. La leggenda vuole che Livia l’avesse fatta costruire – il Tevere non è lontano, e allora ti poteva portare fino al mare – rispondendo ad un segno del cielo, di una gallina bianca cadutale sulla veste, con nel becco un rametto di alloro. Livia allevò la gallina che il cielo le aveva inviato, e piantò il rametto di alloro. Da quel rametto nacque un grande giardino di alloro – ora ricostruito con grandi otri come vasi – che si metteva in mano a chi partiva in battaglia, per corona ai migliori.
Luogo della più nobile storia di Roma, in questa calda domenica di maggio questa spianata verde è la rappresentazione dei tanti colori di una città multietnica. Prima Porta-Labaro, quartiere popolare con una tradizione democratica, radici che conserva e traduce in apprezzabile funzionalità amministrativa. Qui abitano molti di quelli che vennero dall’Est europa passando dal varco del Muro, alla fine degli anni Ottanta, famiglie arabe accanto a famiglie del lontano Oriente.
Di fronte ad uno dei cancelli del parco un ristorante annuncia:”Cucina rumena, siriana ed egiziana”. Appena potrò, mi piacerà indagare sulle radici di questa sintesi.
Dentro, il primo incontro appare come la versione”proletaria” de “Le déjuner sul l’herbe” di Monet. Un largo telo steso sull’erba, all’ombra di un albero, lui a torso nudo, attaccato ad una bottiglia di birra, lei con una improbabile messa in piega, poco distante un’altra lei a maneggiare dentro una borsa termica. Di loro conosco il suono della lingua, è polacco.
La stradina sale verso l’ampia spianata sulla quale si affacciano i resti della villa. Ecco, l’immagine è di una gioiosa umanità: bambine e bambini in bici, chi tira calci al pallone, in fondo due bambini srilankesi ( lo hanno scritto sulla maglietta ) giocano a cricket col papà. Gioia armoniosa, senza urla. La mamma osserva, lunghissima coda sulle spalle trattenuta da un nastro arancione. Si intrecciano musiche. Due donne sedute su una panchina ascoltano quella balcanica, più avanti altre due donne arabe sono sintetizzate sulle loro. Le donne indiane si riconoscono, ci tengono ad indossare nel giorno della festa i loro bellissimi colori della festa. La loro terra in questi giorni è lontana come mai, irraggiungibile. Ce lo dicono le immagini che ci arrivano da lì, che parlano di disperazione negli ospedali, di chi muove per mancanza di ossigeno, di pile accese per bruciare i tanti cadaveri.
Riconosco il ragazzo che gioca a cricket coi suoi bambini, è Amal. E’ il ragazzo che sorride sempre, lavora al distributore di benzina dove io vado. Lì da anni, lo ricordo da sempre. Quando il distributore chiude, lui resta, aiuta chi deve fare rifornimento. Fino a tarda sera, poi monta sul motorino e viene qui, a Prima Porta. La sera e nei giorni di chiusura della stazione di servizio, il lavoro extra aggiunge piccole mance che a fine settimana fanno la differenza. Mi piace vederlo nelle vesti di padre, gli sorrido. Lui ricambia e quasi si giustifica: “Oggi niente lavoro…”.
Farà luce ancora per un paio d’ore almeno. Le mamme arabe cominciano a “raccogliere” i loro bambini: “Stasera volete kebab o McDonald’s?”. Non c’è partita, vincono hamburger, patatine e Coca Cola.