di Nino Cuffaro
Il Consorzio Universitario della Provincia di Agrigento, costituito oltre venti anni fa da una felice intuizione della Giunta provinciale presieduta da Stefano Vivacqua, non è mai riuscito a essere un soggetto attivo nel dibattito culturale e politico della città, vivacchiando sempre ai suoi margini. Nato come una sezione distaccata dell’Università di Palermo, non è mai stato in grado di elaborare un progetto di crescita che portasse alla costituzione di un vero e proprio ateneo autonomo. Una condizione di marginalità emblematicamente rappresentata dalla sua dislocazione fisica in una zona remota della periferia urbana.
Negli ultimi anni ha vissuto stentatamente in mezzo a mille difficoltà, con pochi corsi di laurea, peraltro continuamente ridimensionati, con una gestione discutibile e presidenti spesso inadeguati, più disponibili a soddisfare esigenze politiche che didattiche; per giunta, con finanziamenti esigui, incerti, e spesso neppure corrisposti dai soci del consorzio, a partire dallo stesso Comune di Agrigento. Il vero punto dolente non è, però, la sua sostenibilità economica, tema pur rilevante di cui si dirà in seguito, quanto la progettualità che deve sorreggerlo e il ruolo da assegnargli nell’ambito dell’offerta formativa nazionale, perché o si costruisce un progetto ambizioso, in grado di avere visibilità a livello internazionale, e quindi, di coinvolgere istituzioni culturali e politiche ai massimi livelli, oppure il nano attuale, che non ha nessuna valenza economica, continuerà a vivacchiare: col rischio costante di chiusura di questa non brillante esperienza.
Per la sua posizione geografica, Agrigento è oggi, di fatto, la principale porta d’ingresso in Europa delle martoriate popolazioni della sponda sud del Mediterraneo, e grazie al suo passato e alle testimonianze archeologiche e architettoniche che le civiltà precedenti ci hanno generosamente lasciato in custodia, può a buon titolo aspirare ad essere una delle capitali culturali del nostro mare.
In questa ottica assume un valore centrale la presenza di un polo universitario autonomo, che possa configurarsi in tempi brevi come una università internazionale: spazio aperto a tutti i popoli, a partire da quelli mediterranei, luogo di “contaminazione”, culla di saperi e di sensibilità culturali e religiose diverse; occasione di studio e di confronto, di elaborazione di idee e di progetti; anticorpo potente contro l’intolleranza, la discriminazione, la paura e la violenza, sempre più presenti a sud come a nord del Mediterraneo.
E ancora, un’università integrata nel territorio, che viva dentro la città , e non ai margini fisici e culturali, com’è oggi, con le sue sedi, le biblioteche specialistiche, le emeroteche, le case alloggio per gli studenti, le mense, i centri culturali ed editoriali insediati nel centro storico; che partecipi da protagonista di primo piano allo studio, alla conservazione, alla gestione, alla valorizzazione dell’enorme patrimonio archeologico che la storia ci ha affidato; che abbia parte attiva nel dibattito internazionale sulle tematiche che investono i rapporti tra il nord e il sud del mondo.
L’ex ministro degli interni, l’agrigentino Angelino Alfano, lanciò qualche anno fa l’idea di affidare un ruolo all’Università di Agrigento nell’ambito degli studi e delle ricerche relative all’immigrazione, fenomeno che ci accompagnerà per i prossimi decenni e che dovremo imparare a gestire meglio, ma la proposta non ebbe alcun seguito.
In realtà, pensare ad un polo universitario in una cittadina di 60.000 abitanti non sarebbe in Italia un caso strano né isolato: basterà ricordare gli atenei statali di seguito indicati:
· Camerino – 7.000 abitanti – 8.000 studenti – fondata nel 1958
· Viterbo – 67.000 abitanti – 8.800 studenti – fondata nel 1979
· Cassino – 36.000 abitanti – 7.600 studenti – fondata nel 1979
· Teramo – 55.000 abitanti – 6.000 studenti – fondata nel 1993
Ovviamente, sono evidenti gli enormi vantaggi, in termini economici e di miglioramento della qualità della vita, offerti dal vivere in una città universitaria che attragga da tutto il mondo (si pensi all’Università per stranieri di Perugia) studenti, studiosi, insegnanti, intellettuali. E dunque, cosa sarebbe il nostro centro storico con alcune migliaia di utenti dell’università? Rappresenterebbe per Agrigento uno straordinario volano di crescita economica e culturale, con l’ulteriore vantaggio di produrre effetti crescenti nel tempo: una autentica chiave di volta per il nostro benessere nell’immediato futuro.
Ma, una volta avviato questo progetto, per essere credibili nei confronti dell’establishment nazionale ed internazionale, non ci si può presentare come pezzenti col piattino in mano, in cerca (al solito) di soldi facili da spendere e spandere sul territorio. Occorre fare uno sforzo straordinario, attingendo dal bilancio comunale e regionale ogni risorsa possibile con l’obiettivo di mantenere in vita il Consorzio universitario Empedocle. Il Comune, nella sua qualità di principale socio del consorzio, non può e non deve sottrarsi a questo impegno continuando la farsa di questi ultimi tempi. Da tre anni Agrigento non versa la propria quota, pari a circa 100.000 euro, nelle casse del consorzio. La finanza creativa della vecchia giunta aveva cercato di risolvere il problema barattando la quota annuale con l’affitto al consorzio di Palazzo Tommasi, da adibire a sede centrale dell’università, ma l’offerta è stata respinta al mittente vista la spesa rilevante necessaria a rendere agibile l’immobile, da anni abbandonato all’incuria e al degrado.
Attraverso una seria e rigorosa spending review del bilancio comunale e con un controllo severo dei principali capitoli di spesa (per esempio: finiamola con gli storni cospicui a favore delle ditte che gestiscono la raccolta dei rifiuti – una vera manna per i soliti noti – svolgendo servizi che spesso vengono pagati due volte) sarà dunque possibile recuperare risorse notevoli, per investirle in un progetto che può rivoluzionare il futuro di Agrigento: bisogna crederci e fare di tutto per realizzarlo.
Compiendo sino in fondo la nostra parte avremmo titolo per chiedere ulteriori finanziamenti al governo nazionale – perchè alla Kore di Enna sì e ad Agrigento no? – e all’Unione Europea.
Oggi il consorzio sembra aver ripreso slancio riattivando alcuni corsi di laurea che erano stati chiusi negli anni passati, mentre il consiglio di amministrazione pensa a nuove partnership con altre istituzioni universitarie. Inoltre, fra pochi mesi sarà finalmente pronta una nuova sede nel cuore della città, nei locali dell’ex ospedale di via Atenea, che sarà adibito a residenza universitaria.
I motivi per incoraggiare questa ripresa sono dunque numerosi e forti. Sarebbe un delitto sulla pelle delle nuove generazioni, e una pesante responsabilità dell’attuale classe dirigente (e non penso solo all’amministrazione comunale), mantenere il consorzio in una condizione di stentata operatività o, peggio ancora, rischiare di provocare le condizioni per chiudere in modo desolante il capitolo dell’Università ad Agrigento.