di Nino Cuffaro
Ricorre tra pochi giorni il 55° anniversario della frana di Agrigento del 1966, un’occasione utile per qualche riflessione sulla evoluzione urbanistica della città.
All’alba del 19 luglio 1966 nella zona occidentale di Agrigento, nei quartieri del Rabato e dell’Addolorata, si manifestarono i primi movimenti franosi con la creazione delle prime fenditure nelle strade. La frana si sviluppò lentamente e, grazie anche all’allarme lanciato dal netturbino Francesco Farruggia, gli abitanti degli edifici interessati poterono mettersi in salvo prima dei crolli. Quella del ’66 non fu la prima frana a colpire Agrigento, già nel ’44 e nel ’58 altri due eventi franosi avevano interessato il colle di Girgenti e in particolare la zona della Bibirria, ma si continuò a costruire e ad appesantire la collina con colate di cemento, senza tener conto della fragilità morfologica del territorio. Dopo la frana, la stampa nazionale puntò i riflettori sulla città, mettendo in evidenza la sbornia edificatoria del secondo dopoguerra, con la costruzione di migliaia di vani in zone franose, in aree archeologiche, spesso senza licenza edilizia o in difformità (si chiedeva l’autorizzazione per un immobile di 4 piani, poi magari se ne costruivano 6/7) e, soprattutto, senza alcun criterio urbanistico (a volte mancava anche l’elementare allineamento dei palazzi: basta vedere il susseguirsi delle costruzioni in via Dante e in via Manzoni). I nuovi agglomerati appaiono come un insieme casuale di scatoloni di cemento in cui mancano gli elementi fondamentali per una buona qualità urbana: piazze, giardini, ville, aiuole, parcheggi, slarghi, e a volte anche i marciapiedi. Agrigento, agli occhi dell’opinione pubblica, diventa simbolo di disordine urbanistico e di affarismo.
Così si esprimeva Michele Martuscelli, direttore generale dell’Urbanistica, nel consegnare la relazione della Commissione incaricata dal ministro dei lavori Pubblici del tempo, Giacomo Mancini, di effettuare indagini a seguito del movimento franoso: “Gli uomini, in Agrigento, hanno errato, fortemente e pervicacemente, sotto il profilo della condotta amministrativa e delle prestazioni tecniche, nella veste di responsabili della cosa pubblica e come privati operatori. Il danno di questa condotta, intessuta di colpe coscientemente volute, di atti di prevaricazione compiuti e subiti, di arrogante esercizio del potere discrezionale, di spregio della condotta democratica, è incalcolabile per la città”.
Martuscelli fotografa lo sviluppo urbanistico della città negli anni cinquanta e sessanta, che aveva portato alla edificazione dei nuovi quartieri a sud del centro abitato e aveva disseminato qua e là, e finanche nel cuore della città araba, degli enormi scatoloni di cemento: i famigerati tolli. Con una fascia di palazzoni brutti e disordinati, era stata profondamente alterata la forma della città, fin allora arroccata sul colle di Girgenti, e si era interrotta la continuità fisica e storica tra la Akragas greca e la Kerkent araba.
A distanza di oltre mezzo secolo da quella relazione (che impietosamente non salva nessuno nell’attribuire le responsabilità dello scempio: politici, amministratori, tecnici, imprenditori) la forma della città non è migliorata. Anzi, la bellezza del centro storico è stata ancor più intaccata dallo stato di rovina in cui versano molte abitazioni abbandonate e da una serie di interventi che ne hanno degradato l’aspetto: coperture di eternit, superfetazioni, recipienti di plastica sui tetti, strade asfaltate, etc.. Mentre la Valle dei Templi (che secondo uno dei sindaci della città è stato un ostacolo alla naturale tendenza degli agrigentini ad avvicinarsi al mare) è stata sfigurata con la costruzione di oltre 600 costruzioni abusive.La città dei tolli non è più l’Agrigento di un tempo, ma un aggregato confuso di abitazioni frutto di un malinteso senso della modernità, che ha dato vita ad uno sviluppo economico separato dal progresso.
Sul rapporto tra sviluppo e progresso si snoda un interessante cortometraggio di Pasolini, La forma della città, girato dal regista nel 1973 per la rai. La città in questione è quella di Orte, ma potrebbe benissimo trattarsi di Agrigento. Anche Orte, come Agrigento, un tempo frugalmente sviluppata su una rupe, un esempio di bellezza genuina e assoluta, viene sfigurata dall’irrompere dei palazzoni moderni. Il documentario si articola attraverso la sconsolata analisi dell’irreversibile degrado del patrimonio paesaggistico e ambientale del territorio a causa dell’impetuoso sviluppo edilizio dell’Italia del boom economico. Ma Pasolini non si ferma solo all’Italia e cita anche gli obbrobri urbanistici dei paesi poveri, attratti dal miraggio della modernità: Yazd in Persia, Sana’a nello Yemen, Bhatgaon nel Nepal. Significativa la sua riflessione a proposito del reticolo viario della città antica: chiunque è immediatamente d’accordo nel dover difendere un monumento, una chiesa, un campanile, un rudere il cui valore storico è ormai assodato, ma nessuno si rende conto che quello che va difeso è proprio (…) questo passato anonimo, questo passato senza nome, questo passato popolare. Un breve pamphlet cinematografico in cui la degenerazione ambientale e urbanistica diventa il portato del degrado culturale del nostro Paese. La situazione dell’Italia, delle forme delle città nella nazione italiana (…) è decisamente irrimediabile e catastrofica, dice Pasolini in chiusura.
Ad Agrigento, in questi decenni, la classe dirigente cittadina non si è posta minimamente il tema del superamento di quella forma degradata che la città aveva assunto, guidata da pochi interessi forti (politici in cerca di facile consenso, costruttori-speculatori, proprietari terrieri) e da uno spontaneismo anarchico di massa. Eppure, non si può pensare seriamente ad uno sviluppo economico, culturale e morale di Agrigento, se non si immagina prima, e si sviluppa poi, una forma della città diversa: che sia in sintonia con la sua storia e con il gusto del bello, visto che la fortuna ci ha affidato la custodia di immensi tesori; che sviluppi modalità e tempi di vita compatibili con la sua struttura fisica, come storicamente si è definita; che valorizzi quel grande patrimonio storico, culturale e sociale che le architetture, gli spazi, le tradizioni e gli intrecci umani della città vecchia hanno saputo determinare.
Bisogna pensare ad una città che non espanda più il suo abitato (abbiamo troppe case vuote, non ce ne servono altre); che demolisca le costruzioni abusive nella Valle dei Templi; si concentri sulla ristrutturazione, il riuso e il risanamento del suo centro storico; sviluppi forme di mobilità alternative all’auto; e, prima di tutto, cominci a cancellare i segni della follia urbanistica del secondo dopoguerra, demolendo (ovviamente in tempi medio-lunghi, ma programmandone subito l’evoluzione) gli scatoloni di cemento che hanno sfigurato il profilo della Girgenti del ‘900, restituendo al cuore della città la visione della Valle e del mare africano.
Il tema della demolizione delle brutture che sono state disseminate nel nostro territorio, il più delle volte abusivamente e in qualche caso con i crismi della legalità, è sempre stato un tabù per la classe politica, adusa a cercare consenso approvando continue sanatorie e difendendo ad oltranza l’abusivismo edilizio. Diversi intellettuali, che hanno osservato la città dall’esterno, cogliendone lo stridente contrasto tra le grandi bellezze e la devastazione edilizia moderna, hanno puntato il dito sulla necessità di demolire i tolli. Il primo e più autorevole è stato lo storico dell’arte Carlo Giulio Argan, in occasione della partecipazione ad un convegno organizzato nel 1984 dal centro culturale Pier Paolo Pasolini sull’acropoli e l’agorà di Akragas.
Mentre Giorgio Bocca scriveva agli inizi degli anni ’90: “Stupenda orrenda città Agrigento. I Greci che la fondarono eressero un’acropoli eccelsa sulla rupe atenea, ai cui piedi, nella valle dei templi, edificarono una città a cui si sale, con il desiderio e la nostalgia, come a Gerusalemme. Oggi, arrivati sulla rupe, Agrigento appare nel suo sfascio di casoni gialli, verdi, rosa e non chiedetevi quale disamore di sé e della loro città hanno coloro che l’hanno costruita, perché sono convinti di aver fatto il meglio come modernità”.
In città solo in pochi, in modo particolare Settimio Biondi e Tano Siracusa, a partire dagli anni ‘80 hanno affrontato il tema della decostruzione, ma senza riuscire ad imporlo al centro del dibattito politico e culturale. Un timido riferimento alla possibilità di tagliare i piani alti dei tolli venne anche inserito, verso la fine degli anni ’80, nel piano di recupero del centro storico redatto dall’ing. Vincenzo Rizzo, ma, accolto dall’ostilità di alcuni e dall’indifferenza di molti, non ebbe alcun seguito.
Uno degli argomenti più forti per difendere l’esistente, è stato sempre quello delle risorse limitate. Ma forse le cose non stanno proprio così. Basti pensare che la Sicilia sistematicamente non riesce a spendere tutte le risorse messe a disposizione dai piani di sviluppo finanziati dall’Unione Europea: per incapacità progettuale e per le dinamiche malavitose che spesso governano la spesa pubblica. Agrigento in passato ha perso, per insipienza ed incapacità progettuale, cospicui finanziamenti per il risanamento del centro storico. Inoltre, abbiamo disseminato il nostro territorio di opere inutili e dannose: dighe inutilizzate, zone industriali deserte, cementificazione pericolose dell’alveo dei fiumi, frangiflutti che erodono le spiagge, impianti sportivi mai completati e abbandonati. Le risorse, quindi, potrebbero arrivare da un riorientamento della spesa pubblica. Oggi, poi, se volessimo affrontare il tema della decostruzione e della nuova forma della città, potremmo avere anche uno strumento straordinario e irripetibile a disposizione. In seguito al varo del recovery plan nazionale, con la possibilità di disporre nei prossimi anni di ingenti capitoli di spesa pubblica per la ristrutturazione edilizia e funzionale delle città, avremmo un’occasione unica per sanare, almeno in parte, le storture di decenni di follia urbanistica. Il comune di Agrigento, peraltro, ha ricevuto nei mesi scorsi 1,9 milioni di fondi regionali da spendere per la progettazione di opere per la città: un’opportunità per una svolta urbanistica. Se, invece di programmare una transizione ordinata, si continuerà ad eludere il tema, comunque, bisognerà prendere atto che tra pochi decenni il ciclo dei materiali con cui è stata edificata la città “moderna” si avvierà a conclusione (a partire dal cemento armato) e i tolli saranno, in ogni caso, un fardello di cui liberarsi.
L’Agrigento del prossimo futuro, come la Eutropia di Calvino, racchiude tante città, diverse ed invisibili, ma pronte ad accoglierci. Sta a noi, con le politiche di governo del territorio che faremo nei prossimi anni, scegliere quale città abitare.