di Pepi Burgio
Per alcuni di noi, segnati da deliri assortiti ed astratti furori, l’orizzonte d’attesa verso cui tendere, e con cui contaminarsi, era rappresentato, nella seconda metà degli anni settanta, dagli autori proposti da Adelphi, la distinta casa editrice fondata a Milano nel 1962, di cui Roberto Calasso era ben presto divenuto l’anima. I loro nomi rimandavano al mito asburgico e ad una civiltà letteraria dell’est europeo per lo più inesplorata. E, tra l’altro, raccontavano del piacere di servire, o delle grigie esistenze di modesti uomini, spesso attempati burocrati, compressi dal fardello del vivere così, e impediti dalle angustie della vita sociale; e degli incerti confini, raccontavano, tra malattia e salute, e, talvolta, per dirla con Mittner, di “un malinconico, disperato vagheggiamento dell’età perduta”.
Joseph Roth, Robert Walser, Thomas Bernhard, erano lì, pronti ad espandere il respiro delle nostre coscienze per iniziarci ad una visione dell’esperienza umana più piena ed articolata, e alla scoperta, inoltre, di nuovi autori, in gran parte lambiti da una capacità di scrittura magnetica e di grande suggestione, riflesso di uno spirito del tempo grottesco e dolente, inquieto e opprimente, spesso ironico, sempre drammatico.
A Roberto Calasso, da poco scomparso, andrebbe detto almeno un grazie.
Ho appreso dal Tg2, penultima notizia, del suo distacco; prima, un lungo servizio ha illustrato un sport che sta spopolando in Israele. Pare che presto spopolerà anche in Europa.
L’articolo è stato pubblicato su Suddovest il 30/7/2021