di Nino Cuffaro
Perché Agrigento ha servizi pessimi a costi altissimi per i cittadini? C’entra qualcosa il fatto che le dinamiche della spesa pubblica sono governate da anni dalle stesse logiche e sono ad esclusivo beneficio di una élite ristretta di persone e di realtà imprenditoriali?
In quella che è una delle province a più basso reddito d’Italia, negli ultimi decenni hanno prosperato pochissimi gruppi imprenditoriali che, pur nella diversità del settore economico di pertinenza, sono assimilati da alcune caratteristiche ricorrenti:
- Sono concessionari di licenze pubbliche o beneficiari di appalti della pubblica amministrazione.
- Svolgono l’attività imprenditoriale nella sostanziale assenza di qualunque forma di concorrenza.
- Forniscono servizi scadenti e dal costo elevato.
- Hanno una buona e proficua vicinanza al mondo della politica, sia di destra che di sinistra.
- Fruttano ai titolari guadagni cospicui, senza generare nessun ciclo economico virtuoso e nessuna ricchezza nel territorio.
È questo il caso dei servizi che riguardano il ciclo della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti, la gestione del servizio idrico, la gestione dei trasporti urbani, la costruzione di impianti per la produzione di energia rinnovabile.
In qualche caso, poi, l’attività economica ha assunto i contorni del malaffare. Come notava Giovanni Falcone nella sua intervista a Marcelle Padovani (Cose di Cosa Nostra), dalle nostre parti “il malaffare non è un cancro proliferato su un corpo sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli, maestri cantori, gente intimidita e ricattata che appartiene a tutti gli strati della società”. Quindi, un sistema che si nutre di una complicità diffusa. Caso esemplare quello di Girgenti Acque.
È come se in città esistesse un comitato di potenti, di pochi eletti, situati nei centri nevralgici del potere locale e con ramificazioni robuste nelle istituzioni regionali e nazionali, in grado di condizionare appalti, concessioni pubbliche, incarichi politici, nomine giudiziarie, attribuzioni di funzioni amministrative, attività investigativa delle forze di polizia, operatività di organismi di controllo.
Una gestione da società tribale, dove il più forte si costituisce potere indiscusso e prevarica e depreda il più debole. Tutto questo è reso più agevole dall’inconsistenza delle forze politiche, con i partiti ridotti a gusci vuoti, incapaci di esercitare qualunque attività di indirizzo e di controllo, al servizio di pochi capibastone perennemente attenti alla cura delle carriere personali. Assistiamo alla separazione totale della politica dalla morale. Scissione che ha sempre rappresentato il presupposto di calamità civili.
Il vuoto della politica è stato spesso colmato nel nostro paese della supplenza della magistratura. È stato così per l’inchiesta mani pulite, per le inchieste di mafia e per le tante inchieste che hanno riguardato le complicità tra il mondo politico e gli affari illeciti. Non così ad Agrigento, dove la magistratura si è quasi sempre mossa tra ritardi e incomprensibili lentezze, non riuscendo a scalfire, tranne in alcuni casi marginali, gli affari illegali del potere che conta.
Qualcuno ricorderà l’inchiesta sulle somme urgenze degli anni ‘90, pomposamente battezzata “mani pulite 2”, per alludere al lavoro di pulizia ben più profondo dei magistrati milanesi. Finì in una bolla di sapone e qualcuno degli imputati di quel processo mantiene ancora saldamente il potere nelle proprie mani. Per andare a fatti più recenti si può fare riferimento all’inchiesta “Waterloo”, che riguarda l’associazione a delinquere creata attorno alla gestione di Girgenti acque: le indagini partite nel 2013 si sono protratte inspiegabilmente fino al 2021 con il rischio (ma sarebbe meglio dire la certezza) che il processo si concluda con la prescrizione dei reati. Ma ci sono altri casi del passato recente che hanno riguardato l’attività di imprenditori potenti che non hanno suscitato il dovuto interesse della magistratura. Penso alla vendita (assolutamente illegittima) da parte della regione siciliana di un terreno demaniale della zona archeologica, inalienabile per vincolo legislativo, ad un noto albergatore (mi viene in mente la famosa scena di Totò che vende la fontana di Trevi, con la differenza che in questo caso il terreno è stato effettivamente trasferito); alla creazione di un parcheggio abusivo, con tanto di ruspe all’opera, a poche decine di metri dal tempio di Eracle e all’interno di un’area archeologica tutelata dall’Unesco (incredibile ma vero); agli scarichi nel mare di San Leone di liquami non depurati attraverso i cosiddetti pennelli a mare, che per anni ne hanno impedito la balneazione; alle dune di Maddalusa devastate da un intervento che doveva essere di pulizia, ma che è stato eseguito con una ruspa e con l’insabbiamento dei rifiuti che dovevano essere raccolti. Un ulteriore caso macroscopico dell’attualità è quello che riguarda lo stato di sporcizia e degrado in cui versa la città, con cumuli di spazzatura e discariche autorizzate nel centro abitato (formalmente dovrebbero essere centri di raccolta differenziata dei rifiuti) senza che vi sia alcuna indagine per capire come sia possibile una gestione così “particolare” del servizio – costosissimo – di raccolta dei rifiuti in città, da decenni appannaggio sempre delle stesse ditte (tra poco batteranno anche il primato di longevità nella gestione di un appalto pubblico detenuto dalle imprese del conte Arturo Cassina nella Palermo democristiana).
Insomma, se dessimo conto alle condanne per reati contro la pubblica amministrazione o connessi alla gestione degli appalti e dei servizi pubblici, Agrigento risulterebbe tra le città più virtuose del Paese, con una classe dirigente immacolata. Purtroppo, la realtà è ben diversa. Forse dovremmo avere un altro sguardo sulle cose della città e capire cosa ci sta dietro la facciata di apparente rispettabilità (ma a volte manca anche quella) di un pugno di uomini potenti, che nei diversi ruoli – politici, imprenditori, funzionari pubblici – gestiscono le risorse finanziarie pubbliche, decine di milioni l’anno, per consegnarci servizi tra i peggiori e tariffe le più elevate. Individuare questa casta intoccabile, investita dal crisma dell’impunità, non è difficile, basta seguire la traccia dei soldi, come insegnava Giovanni Falcone. Partire dalle ricchezze accumulate, dai passaggi di denaro, dai favori fatti e restituiti, per individuare la trama degli scambi affari-politica, le reti di complicità che hanno trasformato la democrazia nel suo simulacro, rubando un pezzo di futuro alla città, a noi, ai nostri figli.
È una situazione che fa pensare ad un capolavoro del nostro cinema neorealista, “Le mani sulla città”, girato a Napoli nel 1963. Nel film di Francesco Rosi la speculazione edilizia, allora di stringente attualità in tutta Italia, è vista come un pretesto per cimentarsi in un dibattito sull’idea di bene pubblico, sul valore della democrazia e sulla necessità di una visione morale della politica. Parafrasando una didascalia del film, si potrebbe dire: i fatti e i personaggi sono reali e autentica è la realtà sociale e ambientale che li produce.