di Vito Bianco
Ho acceso tutte le luci per illuminare tutte le stanze di questa casa che non si fa abitare. È un pomeriggio di novembre che le nuvole incerte della mattina hanno adesso quasi del tutto oscurato. Silenzio tra le pareti bianche senza minaccia ma distanti. Gli operai non ci sono. Oggi riposano. È un sabato che scivola lento sopra l’affanno e la speranza della settimana. Dalla casa accanto giungono voci concitate che d’improvviso s’alzano acute, si spezzano in un groviglio incomprensibile. Si pensa a bicchieri che vanno in frantumi. Poi, con lo stesso soprassalto, con la stessa sorpresa ipnotica, si placano.
E non so dire se mi gelano di più le urla oppure il silenzio che segue, perché questa repentina calma è fatta di una specie di enigmatica irrealtà, che altera la normale circolazione del mio sangue e mi fa temere il peggio. Ma che cos’è il peggio? Anche il cane rinchiuso a guardia dei piccioni tace. Ci siamo tutti chiesti come fa a difendere gli uccelli, costretto com’è dietro le sbarre. Intanto lui per tutta la notte ha abbaiato con disperato accanimento, in preda a una rabbia dolorosa che gli lacerava la gola. Non siamo riusciti a dormire. Alle quattro ognuno di noi ha capito che non ce l’avrebbe fatta a sfuggire a quell’interminabile lamento, e così ci siamo alzati e abbiamo gridato che volevamo dormire, dormire.
Daniele mi ha poi detto che stava sognando un cane che abbaiava, ma il cane era anche reale ed è penetrato nel suo sonno, svegliandolo. Il sonno di un poeta è un lavoro, ho pensato; non si può, non si deve disturbare un poeta che sta lavorando. Nel suo saltellante ed ellittico italiano, Jola sbraitava rauca contro il padrone del cane, che si era vestito ed era uscito in strada. Il padrone, che dal mio letto non vedevo, ripeteva che il povero animale era lì per fare la guardia ai piccioni viaggiatori che viaggiano verso dove non si sa, e io, scordata l’irritazione per il sonno interrotto (ma io non sono un poeta) questo avrei voluto sapere: dove li manda; come hanno fatto ad imparare a viaggiare così a lungo senza mai perdersi, senza mai confondersi.
Daniele, destato dal sonno dei giusti cercava, con l’elegante equilibrio verbale dei letterati che guardano il mondo con occhi strabici, di arginare la piena sconnessa di Jola e di far capire all’uomo che certo, i ladri, il cane era lì per i ladri, ma noi avevamo diritto al sonno, “devi capire, Giuseppe”. Ma Giuseppe l’ornitofilo non capiva. Non capiva chi fosse quell’indemoniata biondina che pestava sulle consonanti e non voleva sentire ragioni. Voleva ammazzare il cane? “Signorina, attenta a come parla” ho sentito che diceva, mentre anche la bestia, incantata da quella curiosa polacca, s’era ammutolita e forse si domandava in un modo tutto suo, tutto canino, tutto da animale che è nato in mezzo agli umani, cosa stava succedendo.
Jola però proseguiva con la sua arringa dal balcone che dà sulle gabbie degli uccelli, sul casotto del cane (della cagna) e su quel che rimane di un palazzo bombardato, un resto di facciata spettrale, cinematografica, un set non del tutto dismesso, con la polvere e l’immondizia così vere che sembrano finte. “Il povero cane ha visto un topo e si è spaventato…”
Sì, forse Giuseppe ha ragione: un topo enorme e nero; un topo grosso e nero come un gatto grosso e nero è andato a sturbare a rabbrividire il riposo notturno della cagna, che però riposando non lavora, a differenza di Daniele che invece dormendo lavora, produce, impasta la materia (la malta) con la quale di giorno forgia i versi e li mette l’uno sopra l’altro, sino a quando l’edificio non è completo, con un nome sul grande portone d’ingresso, perché le poesie sono case dove si entra e si cammina e si osserva la disposizione delle camere, e dove, se si vuole, si può anche dormire. Questo lo dice Daniele quando è sveglio. Si tira indietro i capelli, si concentra, e scandisce: “Le poesie non si leggono. Si abitano”.
La casa è una caverna; un antro per filosofi primitivi che non conoscono la luce e ragionano intorno alle ombre, sospesi in un limbo immacolato e piatto. Non ci sono orologi. O meglio, non ce n’erano prima che vi facessi entrare una sveglietta giapponese dalla pulsazione lieve, che tengo a distanza di sicurezza per impedire al suo battito di interrompere il mio sonno. L’ho messa sopra un vecchio televisore fuori uso, e da lì la mattina emette il suo allarme, che mi costringe a scendere dal letto, prenderla in mano e spegnerla. Sveglierà qualcuno degli altri, ho pensato la prima volta; forse Magda, la figlia quindicenne di Jola, una ragazzina pallida egrassotta, con una strana calma ironica nello sguardo, una assurda saggezza slava che viene da lontano e non si cura delle cose di questo mondo. Ma so anche che non è così come sembra. L’abbiamo sentita piangere una mattina; un pianto di bambina stanca, di creatura tradita, di adolescente addolorata e spersa in un paese non suo, dietro una madre malata d’amore per un palermitano che non la vuole e che quindici anni fa la mise incinta di Magda.
Magda sorride e di nuovo mi sillaba il modo corretto di pronunciare ”buona notte” in polacco. Io ripeto e lei soddisfatta dice che ora va bene, possiamo passare ad altro.
In cucina sua madre si muove nervosa, a scatti; gli occhi verdi mobili, annuvolati, perennemente in cerca dell’inganno, del pericolo, della furbizia che può metterla sotto, spiazzarla. Un animale nevrile, rapido, che ha risate isteriche improvvise, guizzi di gatta, furie e ghigni che sorprendono. Intreccia anelli e bracciali col filo e le perline e ogni giorno verso le cinque si mette a tracolla una valigia di metallo grigio e va a un angolo di strada a guadagnare quanto basta a sfamare se stessa e la figlia, che difende da pericoli immaginari e a volte sferza con rimproveri immotivati che sembrano colpi di frusta, usando quella sua intonata lingua materna, profonda e per noi oscura.
Magda non reagisce; sta lì tranquilla e aspetta che passi il vento scomposto delle parole; non si ripara nemmeno; conosce la madre e sa che passa in un lampo quello che in un lampo è arrivato.
Talvolta china appena la testa e accenna un sorriso di compatimento per la vanità di cenere che siamo, e anche per la madre abitata da un uomo che non c’è, non si fa trovare, che forse esiste solo nella sua testa. “Io lo conosco, noi due siamo uguali, siamo due e uno” mi dice Jola, calcando sulle parole e guardandomi dritto negli occhi, come a voler cancellare una volta per sempre il mio scetticismo di curioso della sua vita e ribadire il diritto alla propria ossessione. Magda si guarda le mani e tace; e io un po’ mi vergogno della mia intrusione ma lo stesso vorrei sapere cosa tiene nascosto e cosa pensa di questo padre assente la ragazza che si guarda le mani e non parla.
È rapido come tutti quelli della sua specie. È ancora un bambino timoroso e inesperto; sospettoso, senza fissa dimora, silenzioso, geloso dello spazio che ha segnato con i grumi marroni espulsi dal suo minuscolo ventre; è un’apparizione, una macchia veloce tra i mobili e il muro; una scaglietta di repulsione che ci fa sprangare le porte e battere con le scope per stanarlo, esorcizzarlo, sfumarlo in una ricomposta inesistenza, ricacciarlo freneticamente nella nebbia platonica delle idee. Non ha ancora un nome; per noi è “il topo”, “il topolino”; oppure ne parliamo chiamandolo “la bestia”; e così finiamo col confonderlo con l’altro animale, il cane, la cagna, la bestia addolorata, la belluina gola ululante che non ci ha fatto dormire.
Le donne non sanno nulla del topo. Questa è una faccenda da uomini; è la nostra battaglia; loro non possono aiutarci, forse si farebbero prendere dal panico. O forse no; forse Magda saprebbe catturarlo, saprebbe addomesticarlo, convincerlo a cambiare domicilio, spiegargli che questa è una casa fredda, che tra poco arriverà l’inverno, che meglio sarebbe per lui se si trovasse un luogo più accogliente, più riscaldato, una cucina con più sostanziosi avanzi. Perché Magda, a dispetto della mole si muove leggera e inavvertibile, con la meravigliosa grazia di una ballerina di Degas uscita dal quadro dopo essersi allacciata le scarpette. La faccia larga, la pelle di burro, gli occhiali, la figlia di Jola ti compare alle spalle, soave, innocente, inconsapevole eppure concentrata in un inconcepibile pensiero, corpulenta e disincarnata, placidamente feroce della ferocia degli speculativi di una volta.
Qua tutti fanno tremare il pavimento, camminando; tutti annunciano il movimento, la traiettoria dello spostamento, la meta: la cucina , il bagno, la porta d’ingresso per riavere la luce naturale, l’azzurro dell’aria tiepida dell’autunno palermitano. Lei no; Magda no; Magda semplicemente appare: c’è. “Buongiorno” sussurra, e ha già chiuso dietro di sé la compatta porta del bagno. La creatura lunare si lava i capelli. Forse sta già conversando con il topolino; lo tiene nel palmo di una mano e con l’altra lo accarezza. Poi esce, risponde al richiamo della madre e si avvia verso la stanza senza guardare nessuno. Vorrei chiamarla, domandarle chi è veramente, che cosa sogna la notte, che cos’è il tempo per lei così sola, così priva parole.
Le urla dei vicini hanno lo stesso odore della casa (un odore di aria non respirata, rugginosa, con un sottofondo di gas). E prendono alla bocca dello stomaco, pesano sul fiato, asciugano i pensieri, li inacidiscono, li fanno cozzare contro il costante semibuio delle stanze, la penombra dentro cui ci muoviamo ormai con la precisione dei veterani delle miniere. Siamo pazienti, oculati, saggi nella straniata misura della nevrosi, della disperazione loquace, rapsodica; contrastiamo i vicini con il canto, con gli acuti tenorili di Daniele, rosso, scarmigliato, che recita Dante e commenta Bertolucci, e parla della figlia che non vede da quasi quattro anni, e dell’istanza di riconoscimento, e del dolore e della rabbia che lo stanno devastando.
Daniele fa le carte. Per una modica somma legge il futuro e rischiara il presente. Ma del proprio futuro sa poco; qualcosa del presente, soltanto quello che si intravede nel disordine ansioso dei giorni. E intanto scrive; e nella scrittura ritrova forse la disciplina del fare; il lavoro che riscatta lo scompiglio e il deserto.
Fuori, un primavera inattuale rallenta i gesti, fa indugiare nelle piazze, nei parchi, davanti alle prime pagine dei quotidiani esposti nelle edicole. Alacre avanza il cantiere aperto del centro storico della città. Palermo è un inferno di macchine, di benzene, di nausea ai semafori, di folla a spasso, di operai all’opera, di giovani restauratori con le tute bianche che mangiano tranci di pizza e bevono acqua minerale. In via Alloro bambini scuri e arguti giocano tra le lattine e le bottiglie di plastica, si rincorrono, si siedono a guardare i passanti, i neri adulti o le anziane signore spettinate sedute sul marciapiede.
Su un lato della lunga via che ha la sua attrazione turistica in palazzo Abatellis, il mare chiude la prospettiva come una pittura perfetta, una geometrica astrazione del mare immaginato, con la terra marrone lavorata dalle ruspe e i triangoli bianchi delle barche che incrociano al largo. Altissime verso il cielo azzurro, le gru in azione disegnano lenti movimenti con una precisione d’acciaio.
Jola è un’inquieta donna magra legata a un’idea fissa, intenta a leccarsi una ferita che non si rimargina; è la schiava d’amore polacca che fa la posta nei bar a un uomo sposato con un’altra, che di lei non vuole saperne, che la umilia con la noncuranza di uno sciupafemmine. Lei gli muore dietro da quindici anni ed è felice come una mistica del medioevo. Dopo dieci giorni di caccia paziente l’altra sera l’ha trovato; lui ha avuto pietà di questa donna che non ce la fa a dimenticarlo e se l’è portata a letto. Quando l’ho vista, la mattina dopo, aveva gli occhi larghi e umidi di gioia, profumava di giubilo beato, rideva e mi guardava fiera, viva. Da quello che dice cerco di figurarmi l’uomo che l’ha affatturata così senza rimedio. Ma non è facile. Jola non parla di un uomo; Jola parla di una divinità. Quell’uomo inseguito con l’accanimento di una vendicatrice è il suo dio, l’unica ragione della sua esistenza. Mi fa rabbia la sua fede disumana. E forse la invidio. Forse riconosco in me lo stesso germe di follia, e ne ho paura.
“È un farabutto” le dico, “se ne frega di te, lo vuoi capire?” Sorride e mi guarda come guarderebbe un ritardato e dice: “Tu non capisci, non puoi capire”. E se avesse ragione lei? Se fosse lei nel giusto, se fosse questo, il suo, il solo vero modo di amare qualcuno? Jola basta a se stessa. La sua passione la riempie. Cosa volete che le importi d’essere o di non essere ricambiata? Di certo, abbracciata alla figlia sotto la coperta militare, Jola se la ride del mio misero buon senso. Lei sa che per amare non serve essere in due; è l’odio che ha bisogno del due. “Ti amo” mi ha fatto scrivere sul display del cellulare che mi avevano regalato qualche giorno prima. Poi mi ha dettato il numero e l’ho fatto partire. Era contenta come una bambina il mattino del giorno dei morti. Se non fosse stato per lei, io ti amo non l’avrei mai scritto.
E mentre le piogge nuove scrosciano sul fragile tetto d’eternit, mentre si raggriccia la pelle di questa casa oscura mi chiedo dove terminerà il viaggio di queste due donne, dove andrà a posarsi la falena ossessionata di nome Jola, se e quando troverà la forza di dire basta e andare avanti. La guardo che si arrotola una sigaretta, che fuma con la faccia ostinata e le labbra strette, concentrata nel ricamo rosso e teso dei suoi pensieri pazienti. La guardo e penso che presto se ne andrà e che di lei non saprò più nulla; che non vorrò sapere più nulla.