Volevo dirti:
poeta non è chi dice.
È chi fa sorgere dalle parole
Fiamme e serpenti
(Salvatore Di Benedetto – Le parole nemiche)
Partigiano, deputato, senatore, sindaco della sua città, Salvatore Di Benedetto è stato per i militanti comunisti, ma non solo per loro, il compagno Totò.
Nato nel 1911 a Raffadali, di estrazione borghese, con il padre Alfonso avvocato e sindaco della città, fin da piccolo entrò in contatto con i problemi e la miseria delle masse di contadini e minatori che affollavano la sua casa (il palazzo dei Principi di Montaperto) alla ricerca di qualche aiuto. Raccontava Totò: “Il mio compito da piccolo era quello di offrire ai cittadini – a tutti indistintamente: intellettuali, borghesi o povera gente – che chiedevano udienza al sindaco, un buon bicchiere di vino”. Così ebbe modo di conoscere da vicino quell’umanità sofferente che abitava fuori dal suo palazzo. Da allora resterà affascinato dalla cultura popolare, con la sua parlata, le poesie, i detti, i racconti e i canti che alleviavano il duro lavoro dei campi e delle zolfare. Pur non avendo mai parlato il dialetto siciliano, né nei contesti politici né nei rapporti privati, sarà un cultore della civiltà contadina, che celebrerà nei suoi libri: la raccolta di poesie dialettali dedicata a Giuseppe Serroy; i racconti siciliani di Paese Vecchio; la silloge Cento canti d’amore del popolo siciliano. Inoltre, si occuperà tutta la vita a raccogliere e collezionare reperti, attrezzi da lavoro, utensili, caratteristici della vita frugale di quei contadini che nel dopoguerra guiderà alla conquista di dignità e diritti.
L’opposizione al fascismo
Influenzato nella sua formazione culturale dall’attivismo politico di Cesare Sessa, dirigente di primo piano del Partito Comunista d’Italia di cui fu tra i fondatori e membro del comitato centrale, aderì da giovane studente, nel 1932, alla causa comunista, entrando nella struttura clandestina del partito. In provincia di Agrigento creò e diffuse un foglio intitolato “Il fronte unico antifascista italiano”.
Durante il ventennio fascista coadiuva attivamente Cesare Sessa (il comunista più vecchio e amato dai compagni siciliani, come lo definisce Paolo Spriano nella Storia del Partito Comunista Italiano) nell’organizzare la rete dei comunisti in Sicilia. Sono con loro uno sparuto gruppo di militanti, tra i quali spiccano Stefano La Rizza, Calogero Boccadutri, Giuseppe Montalbano, Domenico Cuffaro, Franco Grasso e, soprattutto, Girolamo Li Causi. A costoro si aggiungeranno poi, negli anni della guerra e della lotta di liberazione, alcuni giovani intellettuali come Emanuele Macaluso, Nicolò Cipolla, Pancrazio De Pasquale, Mario Mineo, Francesco Renda, Pio La Torre. Totò aveva solo 24 anni quando, da studente universitario, viene arrestato e condannato dai tribunali speciali del regime per propaganda eversiva. Pericoloso agitatore per il fascismo, in seguito alla guerra nel Corno d’Africa verrà inviato in Eritrea ai lavori forzati: farà per due anni lo spaccapietre. Successivamente, sarà confinato nell’isola di Ventotene, da dove continuerà i suoi studi e dalla quale verrà condotto in catene a Palermo per sostenere gli esami che gli consentiranno di conseguire la laurea in giurisprudenza.
Scontata la pena e tornato a casa nel 1941, quando le sorti della guerra erano ancora incerte, per niente intimorito dalle condanne subite e dalla sorveglianza del regime, per avere più libertà di movimento si trasferisce nel nord del paese, dove più forte era l’attività clandestina del partito comunista, per organizzare la lotta al fascismo e preparare la liberazione.
La lotta partigiana
A Milano fu ospite del compagno raffadalese Angelo Impiduglia, la cui casa diventa il riferimento di un gruppo di partigiani siciliani guidati da Totò, che assume il nome di battaglia di Aurelio. Collaborò alla redazione clandestina dell’Unità e diresse il giornale partigiano “Il Combattente”. Allacciò rapporti con politici ed intellettuali di primo piano come Elio Vittorini, Renato Guttuso, Albe Steiner, Mario Alicata, Pietro Ingrao, Celeste Negarville, Pompeo Colajanni, Gillo Pontecorvo, Giancarlo Pajetta. Particolarmente stretti saranno i rapporti con Elio Vittorini, che ne parlerà nel suo libro Diario in pubblico; Pietro Ingrao, che ospiterà nella sua casa di Milano durante la clandestinità (un ricordo affettuoso di Totò è nel libro di Ingrao Volevo la luna) e con l’artista Albe Steiner. Quest’ultimo, punto di riferimento del mondo della grafica negli anni ‘50 e ‘60, diventerà un amico intimo di Totò, con cui passerà più di un’estate dividendosi tra la casa al mare di Eraclea Minoa e la residenza di campagna di Butermini. Proprio in uno di questi soggiorni a Raffadali Steiner morirà nel 1974. Il contatto operativo più importante sarà quello con Luigi Longo, comandante delle brigate internazionali al tempo della guerra civile spagnola, considerato il capo militare dalla struttura clandestina del partito, che lo incaricherà di tenere, in qualità di ispettore, i rapporti con le prime cellule partigiane della brigata Garibaldi, inviandolo anche in Svizzera (a piedi, ricorda Totò) per chiedere aiuto e armi agli alleati.
Proprio nel periodo milanese conobbe Vittoria Giunti, studiosa di matematica e fisica, tra i fondatori del “Fronte della gioventù”. Nata da un’idea di Giancarlo Pajetta, l’organizzazione – che annoverava tra le sue fila intellettuali come Eugenio Curiel, Ernesto Treccani, Aldo Tortorella e Antonio Banfi – aveva l’obiettivo di impegnare la nuova generazione contro i nazifascisti non solo sul fronte militare, ma soprattutto sul piano dell’attività culturale e educativa. Vittoria Giunti, intellettuale raffinata, una dei ragazzi di via Panisperna, formatasi a Roma alla scuola di Enrico Fermi, sarà la compagna con cui Totò dividerà la passione politica e la vita.
Grande organizzatore, divenne promotore e protagonista, con Elio Vittorini e Giansiro Ferrata, della manifestazione del 25 luglio 1943, che seguì la caduta del regime e l’arresto di Mussolini. Incarcerato in seguito alle manifestazioni di piazza, riuscirà a fuggire rocambolescamente dal palazzo di giustizia di Milano bombardato dagli alleati. Inviato a Roma per collaborare alla riorganizzazione del partito nel centro Italia, si impegnerà in attività di propaganda e parteciperà ad azioni militari in appoggio all’avanzata delle truppe alleate. In una di queste azioni nei pressi di Tivoli, una bomba a mano gli esplose accanto devastandogli il viso, privandolo di un occhio e danneggiando il palato e le arcate dentarie.
È commovente il racconto che Totò fece del suo incontro con Vittoria, venuta a cercarlo in ospedale. Aveva il volto quasi completamente bendato, le garze lasciavano libera la sola visione dell’occhio sinistro rimasto illeso. Il ferito era cosciente, ma non era in condizioni di muoversi o di parlare. Vittoria non sapeva dove fosse ricoverato Totò che, privo di documenti di identità, non era registrato da nessuna parte. Allora ispezionò tutto l’ospedale, camerata per camerata. Non era ancora a conoscenza del tipo di ferite riportate dall’uomo che amava e andava da un letto all’altro dei feriti gravi, alla disperata ricerca di un cenno di riconoscimento. Passò vicina al letto di Totò, ma le bende le impedirono di riconoscerlo. Allontanandosi notò un ferito che dall’unico occhio sano la fissava attentamente, quasi a volerle parlare, ma sul momento non vi prestò molta attenzione e si avviò all’uscita. Era quasi fuori dalla camerata, con Totò in preda alla disperazione (la scena ricorda molto alcune atmosfere del dottor Zivago), quando uno scrupolo la assalì. Rivolse di nuovo lo sguardo al letto in fondo alla stanza, a quell’occhio supplichevole e ….. decise a passo svelto di tornare indietro. Finalmente, toccando la mano del ferito, capì di aver ritrovato Totò. Da quel momento non si lasceranno più.
Il ritorno in Sicilia
Rimessosi dalle ferite, che gli lasceranno delle tracce indelebili sul volto, Totò tornò in Sicilia nel 1945 accompagnato da Vittoria. Pochi anni prima aveva lasciato un pugno di compagni, ora trovava un popolo di contadini e bracciati ad attenderlo. Saputo del suo arrivo, centinaia di manifestanti con le bandiere rosse gli vanno incontro a piedi fino a contrada Modaccamo per accompagnarlo festosamente in paese. Ma c’era ben poco da festeggiare. La guerra aveva aggravato ancor di più le già precarie condizioni della classe lavoratrice e la miseria era indicibile. Nelle povere casupole contadine era un’impresa procurarsi un pezzo di pane e un po’ di verdura selvatica per sfamare la famiglia. Ma il popolo non si rassegnava. Leghe di contadini e zolfatai sorsero in tutte le città per chiedere condizioni di lavoro dignitose, rivendicare diritti e, soprattutto, per occupare le terre incolte dei latifondisti. La situazione era esplosiva: le manifestazioni e le occupazioni spontanee si susseguivano, la mafia sparava e ammazzava a difesa degli agrari, polizia e carabinieri manganellavano e arrestavano i capi delle rivolte, gli indipendentisti soffiavano sul fuoco della rabbia popolare.
Il gruppo dirigente regionale del partito comunista era formato soprattutto da intellettuali forgiati dalla lotta al fascismo e dalla partecipazione alla Resistenza. I dirigenti comunisti, come ricorda Emanuele Macaluso nel suo 50 anni nel Pci, si consideravano quasi come “un ordine monastico, in cui obbedienza e solidarietà, aiuto reciproco e comportamenti nel luogo di lavoro, nella società, nella famiglia, fanno parte dell’identità collettiva”. Ma all’interno di questo gruppo granitico si creò una spaccatura tra la linea istituzionale dettata da Togliatti con la svolta di Salerno del 1944 (che voleva rafforzare il partito con la lotta all’interno delle istituzioni e mantenere un clima di collaborazione con le altre forze antifasciste) e interpretata in Sicilia dal segretario regionale Girolamo Li Causi; e quella movimentista (che puntava ad appoggiare e guidare le rivolte contadine andando allo scontro con gli agrari, la mafia e la Democrazia Cristiana che ne difendeva gli interessi) capeggiata dai dirigenti più legati alle realtà territoriali, come Pio La Torre e Pancrazio De Pasquale. Alla fine, prevalgono i movimentisti, a cui aderiscono anche Totò Di Benedetto e Cesare Sessa, anche per togliere spazio al movimento indipendentista, sempre più eversivo e violento.
Il secondo dopoguerra vedrà un decennio di lotte sociali intense in Sicilia, accompagnate dalla reazione assassina della mafia, responsabile di decine di agguati a contadini, sindacalisti e dirigenti comunisti e socialisti che culmineranno nella strage di Portella della Ginestra ad opera della banda di Salvatore Giuliano. Proprio a Portella della Ginestra Totò, in qualità di segretario della federazione comunista di Palermo, terrà il suo primo comizio in Sicilia il 1° maggio del 1946, un anno prima dell’eccidio. La guida delle lotte sociali culminate con l’occupazione del feudo premiò altre ogni aspettativa la sinistra. Nelle prime elezioni regionali del 20 aprile 1947 il Blocco del Popolo (la lista unitaria dei comunisti, socialisti e azionisti) sarà il primo partito col il 30,38% dei voti, superando abbondantemente la Democrazia Cristiana ferma al 20,53%.
Gli incarichi istituzionali
Negli anni ‘50 Totò si dividerà nella sua attività tra la Sicilia e Milano, dove conservava affetti e importanti legami politici. Nel 1958 sarà eletto alla camera dei deputati e vi sarà confermato per tre legislature fino al 1972. La sua carriera di parlamentare si concluderà al senato nel 1976. Si trasferirà stabilmente a Raffadali, oramai orfana di Cesare Sessa, a partire dal 1957, quando sarà eletto sindaco della città: carica che ricoprirà per circa 30 anni, fino al 1987, con l’interruzione dal 1982 al 1985.
La sindacatura a Raffadali
Non dev’essere stato facile fare il sindaco di un paesino di gente malnutrita e spesso senza lavoro, con poca istruzione, colpito da malattie endemiche come la malaria l’epatite e la tubercolosi, dalle misere case di gesso prive di ogni confort, senza fogne pubbliche, con le strade pavimentate alla buona con pietre irregolari che lasciavano spazio alla polvere e al fango. Peraltro, in una situazione in cui le casse pubbliche erano vuote e non c’era all’orizzonte nessun boom economico trascinato dal settore industriale, come nelle regioni settentrionali. Qualche risorsa poteva arrivare dalla Cassa per il Mezzogiorno, se si aveva la capacità di elaborare progetti finanziabili. Sicché l’amministrazione di Raffadali, sotto la guida di Totò, fu una delle prime in Sicilia ad adottare il Piano Regolatore, che consentirà al comune di accedere ai finanziamenti per risanare il centro vecchio e dotare di opere di urbanizzazione la costruenda città nuova. Sul modo in cui i raffadalesi hanno poi interpretato la pianificazione urbanistica meglio stendere un velo pietoso.
Oltre all’aspetto urbanistico, gli altri due temi portanti della sua amministrazione furono il sostegno alle famiglie e la crescita culturale. Il comune non aveva risorse da destinare direttamente all’aiuto alle famiglie povere (praticamente i tre quarti dei cittadini), ma riuscì ad alleviare le condizioni dei più umili con l’istituzione di alcune classi della scuola elementare a tempo pieno e con le colonie estive al Villaggio della Gioventù. Così era possibile offrire, oltre all’istruzione, un buon pasto a molti bambini e ragazzi che non riuscivano a magiare adeguatamente a casa. Sul piano dell’istruzione, la prima iniziativa fu quella di fondare una biblioteca comunale che oggi porta il suo nome, in modo da dare, soprattutto a chi abitava case senza libri (la stragrande maggioranza) l’opportunità di leggere e studiare. Ricordo in proposito il racconto del compagno Domenico Tuttolomondo (u zi mimu cravuni ), che con la sua Fiat 600, con la quale svolgeva l’attività di tassista, accompagnò il sindaco in un viaggio avventuroso a Palermo per tornare con l’auto piena di centinaia di libri, sistemati in ogni spazio, in ogni buco possibile, fino all’inverosimile.
Ma il capolavoro di Totò fu la creazione del Villaggio della gioventù: importante centro di socializzazione e di attività culturali. Il comune aveva ricevuto per donazione testamentaria una collinetta rocciosa a pochi chilometri dalla città. Praticamente, a prima vista, un pietrone brullo buono a niente. Ma la sua amministrazione, con pochissimi soldi, grazie al lavoro e alla generosità di tanti giovani del movimento comunista che vennero da fuori a lavorare gratuitamente (dormendo nei sacchi a pelo e mangiando in campagna a Butermini da Totò e Vittoria) a pezzo a pezzo creò una struttura immersa in una pineta e organizzata con semplicità ed efficienza: una cucina, un refettorio, un campetto, un teatro all’aperto, uno spazio espositivo, tutt’attorno ad una piazza circondata da alberi di carrubo.
Il Villaggio sarà per decenni il punto di riferimento delle colonie estive per i bambini e i ragazzi della città, ma soprattutto una fucina di attività culturali. A partire dai primi anni ‘70 (prim’ancora che lo straordinario Renato Nicolini inventasse l’estate romana) vi si svolgeranno attività teatrali delle compagnie locali, con Mimmo Galletto ed Enzo Alessi grandi protagonisti; rassegne nazionali di teatro amatoriale, con la partecipazione di gruppi teatrali di tutta Italia; serate di cinema, concerti e feste dell’ARCI; le feste dell’Unità, con la presenza di dirigenti nazionali; la settimana dello scolaro con la partecipazione di tutti i circoli scolastici della provincia, organizzata dal maestro Nino Aurelio Cuffaro, direttore del centro culturale Erbesso. (Un vero delitto che quella struttura giaccia oggi abbandonata)
Il primo incontro con Totò
Nel giugno del 1976 da ragazzo iscritto alla FGCI (la federazione dei giovani comunisti) partecipavo alla mia prima campagna elettorale. Era un momento particolare, elettrizzante: per la prima volta dalla liberazione c’era la possibilità concreta che il Partico Comunista superasse nei consensi elettorali la Democrazia Cristiana. Se fosse avvenuto, sarebbe stato difficile mantenere la conventio ad excludendum contro i comunisti e il governo del paese sarebbe cambiato. Almeno così pensavamo.
In sezione c’era grande fervore. Si organizzavano le riunioni con le categorie professionali, i comizi in piazza con i dirigenti importanti, gli incontri di quartiere, le riunioni di caseggiato, la distribuzione della stampa e dei volantini elettorali casa per casa, e l’affissione dei manifesti. Quest’ultima attività era appannaggio dei giovani della FGCI. Il pomeriggio si arrotolavano i manifesti, si preparava la colla, si predisponevano i secchi e le scope per spalmarla sui muri, si facevano le prove in una sorta di apprendistato. Poi, fatte 3-4 squadre, la sera ci si spartivano i quartieri e si passava all’azione. Ovviamente, i manifesti non venivano affissi, se non in piccolissima parte, negli appositi spazi elettorali, ma a tappeto in ogni spazio disponibile. Raffadali era una città rossa e doveva essere ben visibile a tutti. Inoltre, mettevamo la massima cura nel coprire i manifesti dei fascisti del MSI e quelli della DC. Gli altri partiti erano quasi assenti dalla campagna elettorale e, comunque, per noi contavano poco.
In quel periodo il sistema elettorale prevedeva ancora le preferenze multiple espresse con l’indicazione dei numeri di lista dei vari candidati. Sicché, mentre noi comunisti affiggevamo manifesti con il simbolo del partito o per pubblicizzare le principali battaglie politiche, quelli della DC affiggevano le foto dei vari candidati con l’indicazione delle cordate elettorali a cui erano legati. La DC, specialmente in campagna elettorale, più che un partito sembrava un arcipelago di gruppi di potere in lotta tra loro. Ognuna di questa fazioni aveva una propria sede, propri fondi (con le inchieste di tangentopoli poi sapremo da dove arrivavano) e utilizzava per i lavori di propaganda e di affissione dei galoppini elettorali (non veri e propri militanti, ma gente legata al politico locale e pagata in denaro o con promesse di vario tipo). Una notte un gruppo di galoppini particolarmente rissosi e incavolati per la copertura dei manifesti appena affissi, aggredì una nostra squadra e con atteggiamento delinquenziale tentò di entrare in sezione, provando a scardinare il portone d’ingresso.
Appena informato del tentativo di attacco ai ragazzi della FGCI e alla sede, Totò si alzò all’istante in piena notte, passò di corsa dal municipio per indossare la fascia tricolore del sindaco e si precipitò in sezione. Chiamato il maresciallo della locale stazione dei carabinieri gli diede disposizione di pattugliare le vie del paese e di individuare gli aggressori, poi restò con noi a presidiare la casa del popolo. La sua mobilitazione immediata, il suo intervento vigoroso, l’affermazione decisa della sua autorità ebbero su noi ragazzi un effetto galvanizzante. Quella notte, con Totò alla nostra guida, avremmo potuto fare persino la rivoluzione.
L’addio alla politica attiva
Dagli anni ‘70 agli ‘80 la politica muta profondamente. La spesa pubblica si ingigantisce dando vita ad una marea di appalti, incarichi, consulenze, finanziamenti e contributi di ogni sorta. Con i soldi arriva il benessere, ma dilaga anche l’affarismo e la corruzione. Gli uomini come Totò, temprati dal fuoco degli ideali del socialismo e dalla partecipazione alla Resistenza, non sono più utili. Anzi, erano decisamente un impaccio! E viene il tempo dei carrieristi, dei trasformisti, dei voltagabbana, degli sciacalletti che ancora imperano, soprattutto dalle nostre parti. Totò si stacca progressivamente dagli incarichi istituzionali dedicandosi sempre più alla scrittura, senza nascondere la preoccupazione per il continuo scadimento della vita politica nel nostro paese. Continua comunque ad avere una vita pubblica intensa portando, praticamente fino agli ultimi giorni di vita, la sua testimonianza dovunque venga richiesta: nelle riunioni di partito, nelle manifestazioni dell’ANPI, negli incontri scolastici, nelle iniziative delle associazioni culturali, nelle celebrazioni istituzionali.
L’arte del parlar bene
Totò fu anche un formidabile oratore. I suoi comizi riempivano le piazze e le folle acclamavano i suoi discorsi con frequenti e prolungati applausi e con una vera e propria apoteosi finale. Si è già detto che non parlò mai, né in pubblico né in privato, il dialetto siciliano di cui non ebbe la cadenza. Eppure, aveva una abilità unica nel farsi capire e scuotere le coscienze di masse di contadini analfabeti o quasi, che non erano certo in condizioni di capire discorsi politici complessi espressi in lingua. Sceglieva con cura le parole più semplici ed efficaci per accendere i cuori. Quei diseredati erano il suo popolo ed egli ne conosceva la fatica, le sofferenze e le aspirazioni. Amava quei contadini e ne era ampiamente ricambiato, per questo sapeva quali tasti toccare. E poi, era altresì capace di una grande espressività non verbale. Riusciva a comunicare con tutto il corpo: agitando le braccia, muovendo la testa, volgendo lo sguardo ad un altrove lontano ma desiderato, e soprattutto modulando la voce in un andamento beethoveniano: toni alti, bassi, pause in una miscela che solo lui sapeva rendere esplosiva. Lo aiutava certo la sua credibilità politica che sembrava incarnarsi nella sua figura, imponente ed austera ad un tempo, e in quelle ferite al volto che testimoniavano la sua indole di combattente. I suoi comizi erano delle vere e proprie rappresentazioni teatrali, che Totò interpretava con grande maestria, per un pubblico che occorreva educare alla libertà e alla democrazia, per indirizzarlo verso le conquiste sociali. Anche la sua uscita di scena fu quella di un grande protagonista.
L’ultimo comizio
Venerdì 6 aprile 2006 si chiudeva la campagna elettorale per le elezioni politiche e, come al solito, il partito teneva nella centrale via Rosario il comizio finale. Totò stava male e sentiva la fine approssimarsi, ma non volle mancare al comizio che avrebbe rappresentato il commiato dai compagni, dal partito, dal suo popolo. Si reggeva a fatica sulle gambe e mi chiese di accompagnarlo in piazza, con mia grande preoccupazione, viste le sue precarie condizioni di salute. Per la prima volta da quando lo conoscevo, lo presi a braccetto per offrigli un punto di appoggio e sorreggerlo. Arrivati con fatica in piazza Rosario, dopo un affettuoso e corale applauso dei compagni, per evitargli l’imbarazzo di essere portato in braccio sul palco (l’avrebbe considerata un’umiliazione, lui che era sempre stato un combattente vigoroso) venne fatto accomodare su una sedia proprio sotto la tribuna degli oratori. Gli stavo vicino, tenendolo discretamente per la giacca, per paura che potesse cadere e nella speranza che non si accorgesse della mia presa. Naturalmente gli venne data immediatamente la parola per quello che sarebbe stato il suo ultimo comizio.
Sarà un intervento insolitamente lungo. C’era bisogno, dopo anni di governo della destra berlusconiana, di ricordare a tutti il valore della libertà e delle conquiste dei lavoratori, e chiese con forza ad ognuno vigilanza ed impegno per difendere la democrazia e i diritti conquistati a caro prezzo. Non poteva darsi alla folla come avrebbe desiderato, né riusciva a modulare la sua voce, priva della potenza di un tempo, come avrebbe voluto, ma il suo ragionamento era sempre lucido ed efficace. I compagni lo ascoltavano in un profondo silenzio, commossi e attenti a cogliere ogni sfumatura delle sue parole, senza mai interrompere il discorso con applausi che avrebbero turbato quella corrente di forte intesa spirituale tra l’oratore e il suo uditorio. Alla fine dell’intervento, prima di raccogliere l’abbraccio collettivo e l’applauso scrosciante e interminabile del suo popolo, facendo appello alle sue forze residue volle ergersi in piedi e con la sua voce migliore, alzando le braccia, si protese in un saluto affettuoso e definitivo. Conclusa la manifestazione, Totò era stanchissimo. Per evitare l’ulteriore fatica dei saluti e degli abbracci singolari che tutti avrebbero voluto donargli, decidemmo di formare un ordinato corteo per accompagnarlo a casa. Praticamente lo portavamo in braccio, quasi fosse una cerimonia trionfale. A sorreggere Totò c’erano da un lato, con me, Salvatore Tuttolomondo (ex sindaco di Raffadali), dall’altro Peppe La Longa, compagno di lungo corso, e Lillo Casà (per i compagni affettuosamente Lillu Pizzutu).
Dopo qualche settimana, Totò se ne andò. Come se avesse potuto scegliere lui il momento, da grande protagonista della storia la morte lo colse nel giorno più emblematico: il 1° maggio del 2006, il giorno della festa del suo popolo. Quel giorno la banda musicale girò le vie del paese suonando mestamente i brani cari alla tradizione comunista: Bella ciao, Bandiera rossa, l’internazionale, l’inno dei lavoratori. Dopo alcuni giorni, lo seguirà Vittoria Giunti, la donna della sua vita.
Il ricordo di un uomo
Qualche anno prima della morte, Totò e Vittoria rilasciarono una lunga intervista ad Alfonso Gueli e Lia Rocco. Un vero e proprio testamento politico e morale. Nel documentario che è stato realizzato da Alfonso Gueli, intitolato Viva il sogno, si raccontano le vicende salienti della loro vita: le scelte giovanili, il carcere, il confino, la lotta partigiana, le lotte contadine del dopoguerra, ma anche la passione per la scrittura e la poesia. In coda all’intervista, Lia Rocco chiede a Totò: “cosa le piacerebbe che restasse della sua vita?”. Totò risponde, “questa casa”, facendo riferimento al palazzo dei principi di Montaperto. Una casa che racchiude tante cose della vita di Totò e Vittoria: i libri letti e scritti; le collezioni degli arnesi della civiltà contadina, ricercati e collezionati con impegno; reperti archeologici rivenuti nella zona; le opere d’arte acquisite nel corso dei loro viaggi in giro per il mondo; le opere grafiche dell’amico artista Albe Steiner; i quadri e i mobili antichi di famiglia. Praticamente una casa museo che ben rappresenta i gusti artistici e gli interessi culturali di coloro che la abitarono.
Subito dopo, sempre in risposta alla domanda di Lia Rocco, Totò aggiunge: “vorrei che rimanesse il ricordo di me, che qualcuno si ricordasse di me anche 10 o 20 anni dopo la mia morte, così da allungare in un qualche modo la mia vita”. Ecco, questo scritto vuole essere anche un modo per aderire a quel desiderio e ricordare, con affetto e gratitudine, l’impegno di uomini e donne che con il loro sacrificio, talora anche della vita, ci hanno permesso di vivere gustando il sapore della libertà.
DISEGNO INCOMPIUTO
Disegnai sul tuo seno una piccola casa
e, più in basso, un giardino con un piccolo fiore.
Salendo, sulla bocca, volevo disegnare una stella.
Non potei, perché una ciocca dei tuoi capelli
mi cadde fra le dita e mi parve così bella
che disparve il ricordo della stella.
(Salvatore Di Benedetto – Le parole nemiche)