di Livio Cavaleri e Enrico Montalbano
Safa ha ventotto anni, viene da Racalmuto. Il suo nome, arabo, vuol dire «chiara, limpida». Spesso è storpiato, adattato – per così dire – dagli agrigentini che incontra. Per questa ragione si presenta con il nome di Chiara.
Durante un primo pomeriggio estivo ci accoglie in un ampio terrazzo, all’ultimo piano di uno dei palazzi più alti di Agrigento; la vista è notevole, particolareggiata e totale. C’è il centro, fatto di edifici sputati dal basso, incastrati fianco a fianco, sorti come piante spontanee; alcuni palazzi della via Atenea vengono distorti in prospettiva, assumono forme inusuali e sbagliate; alcuni, come quello ospitante l’ex circolo dei nobili, svelano la schiena nuda e fatiscente; le sue ferite suggeriscono non tanto l’idea di abbandono, del vuoto e del silenzio che l’hanno prodotto, quanto l’esistenza di un fenomeno vivo; questo fenomeno, dotato quasi di volontà propria, gli edifici li divora senza fretta, meticolosamente. Altrove, osservando dall’alto, i cortili vengono sepolti dalla prepotenza dei palazzi, ripensati come deambulatorio rispetto alla maestà cementizia; altrimenti sono diventati cantieri o parcheggi. I binari ferroviari si stagliano per una lunghezza insensata, desolante, e dall’alto paiono le crepe sul letto di un bacino inaridito. La vista a sud, invece, mostra un paesaggio indeterminato, fatto di confini affidati alla memoria individuale che non alle disposizioni storico-amministrative. La Valle, anonima, ne è inghiottita. Safa ci invita a seguirla. Il gazebo nel quale ci accomodiamo, da lei arredato, ha tanto il gusto della campagna quanto della città. Safa siede di fronte a noi, intreccia subito le mani che lascia pendere oltre il ginocchio: la sua posa è disinvolta, accogliente e svela una certa curiosità nei confronti dell’intervista. Parla con immediatezza ma le parole sono ponderate, esito di una riflessione iniziata chissà quanto tempo fa.
“Sono piena di contrasti…” dice quasi subito, come se volesse mettere in chiaro che l’identità non è – per lei e per chiunque – un fatto lineare, compiuto. I suoi genitori sono marocchini, nei primi anni novanta lasciavano Khouribga per trasferirsi a Racalmuto.
Al loro arrivo – racconta – i due coniugi rappresentavano gli unici stranieri del paese; «imbastardirsi» era inevitabile e non c’era il tempo di isolarsi, neanche a volerlo. La madre ha lavorato come assistente presso persone anziane; la ragazza, quando non era a scuola, frequentava le case racalmutesi e imparava la cultura siciliana.
È curioso che abbia appreso l’arte del confronto interagendo proprio con le fasce di età solitamente più conservatrici. Di fatto, della provincia ha scoperto tanto i giochi di carte quanto il folklore, tanto le preghiere quanto le ricette di cucina. A scuola ha imparato le lettere italiane, mentre l’alfabeto arabo lo ha studiato in un corso a sé, dedicato ai piccoli migranti di seconda generazione; ha frequentato l’oratorio, «per integrarsi», ma lo ha fatto con piacere; prende ancora parte alle feste popolari del paese, e quando non può farlo ne soffre.
Poi c’è il Marocco, dove torna ogni volta che può a visitare nonni e zii, dove risiede l’altra metà delle sue radici; eppure, alla luce di alcune sue esperienze, della distanza tra le sue abitudini e quelle locali, sembrerebbe vivere il paese da straniera. In Marocco ritrova le contaminazioni di Palermo, i suoni del mercato, la festività popolare, la riservatezza degli anziani, la lotta tra tradizione e modernità. Lì incontra echi di Sicilia, e non viceversa.
“Ogni tanto, mi chiedono: A cu apparteni? . Io non appartengo…”.
La sua identità è ancora per lei oggetto d’indagine. Safa racconta che molti marocchini, molti marocchini della sua età, sono immigrati nell’isola per poi andar via. Il resto della comunità – ci spiega – non è molto unita, non c’è particolare aggregazione; un fatto che non facilita l’incontro con la città che, dal canto suo, «non è interessata all’immigrato o alle sue necessità»; e aggiunge: «Agrigento è negligente, non razzista».
Safa osserva come lo scorso luglio, in occasione della Festa grande – celebrazione musulmana che richiama il sacrificio di Isacco e quindi l’obbedienza a Dio –, il sindaco di Agrigento non fosse presente mentre a Palermo le autorità presenziavano lo stesso evento. Lo sguardo di Safa sulla città è solo uno dei tanti possibili, però carico di quella tensione identitaria che manca a molti dei suoi abitanti. Se la cittadinanza è un diritto, l’appartenenza è una pratica che non si esaurisce; appartenere a una città richiede uno sguardo vigile sulla stessa, la permanenza d’interrogativi, una continua ricerca dei suoi significati. Vivere ad Agrigento, forse, è questione d’inquietudine. Inquietudine nei confronti della sua anima pigra, disfunzionale e balorda; inquietudine perché è facile leggere la città con disprezzo, rigetto.
Invece l’atteggiamento di Safa, per esempio, è quello di chi non ha smesso di cercare, di appartenere al luogo che abita, di coltivare le radici. Nella complessità della sua formazione culturale cova un desiderio di consapevolezza e di partecipazione che noi abbiamo perso.