di Tano Siracusa
Questo reportage di dieci anni fa descrive un contesto scomparso. La diga di Belo Monte, di cui parla alla fine il dottore Aldo Lo Curto, è stata poi realizzata dai successori di Lula e come previsto l’intero habitat degli Araweté è stato sconvolto. Già investiti dieci anni fa dall’onda culturale del nostro modello di vita, adesso il loro territorio, e quello dei Kayapó, degli Arara, degli Juruna, dei Xikrin, degli Asurini e dei Parakanã, è stato sommerso dalle acque del fiume. Scrive Francesca Mancuso: “… obbligati a cambiare il loro stile di vita a causa dell’esaurimento delle risorse alimentari. La centrale idroelettrica di Belo Monte metterà a rischio anche una serie di pesci oggi a rischio estinzione. E ultimo, ma non per importanza, produrrà ingenti quantità di gas serra”.
Circa ventimila persone sono state trapiantate in altri ambienti, sradicate. Hanno ricevuto soldi, molti hanno preferito le abitazioni in cemento. Ciò che restava della loro cultura solo dieci anni fa, è stato travolto. Come nelle peggiori previsioni del dottore, delle comunità indigene e di quanti si sono opposti alla costruzione della diga.
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Sul fiume si accendono i primi bagliori del crepuscolo mentre la canoa ha spento il motore e scivola ormai silenziosa, la tozza prua rivolta verso il villaggio. Davanti l’infermeria il dott. Aldo strimpella la chitarra, accenna vecchie canzoni italiane degli anni ’60, un brano dei Beatles, classici della tradizione siciliana o napoletana.
Non è stata una giornata particolarmente impegnativa. Qualche visita durante la mattinata, un piccolo intervento chirurgico ad un uomo che aveva una brutta infezione ad un piede, una riunione con un gruppetto di adolescenti che hanno minacciato di uccidersi dopo avere litigato con i genitori. Le minacce dei ragazzi sono probabilmente soltanto degli ingenui ricatti, ma in più di 20 anni, da quando il dottore frequenta gli Arawete, non si era verificato un solo caso di tentato suicidio e adesso in pochi mesi due giovani arawete si sono suicidati, sparandosi con il fucile.
Certo, della morte gli indios non hanno paura, sanno che dopo la morte li attende una specie di paradiso dove non è più necessario andare a caccia e pescare, dove non si soffre più, un paradiso di ozio e abbondanza. Ma la desiderabilità del morire per gli Arawete non è una spiegazione esaustiva, né consolatoria. Il dubbio che questi suicidi – e le minacce e il gran parlare che ne fanno gli adolescenti – possano essere anche il riflesso del un profondo disorientamento culturale che ha investito gli indios preoccupa il dottore, anche se non ne parla volentieri.
Fino a 40 anni fa gli Arawete non avevano avuto nessun contatto con il mondo oltre la foresta, un mondo dove altri uomini si erano inoltrati nelle intricate vie della storia. La fragilità degli indios, della loro cultura, è prodigiosa: basta un nostro sguardo per sbriciolarla. O meglio, il loro sguardo posato su di noi. Di sicuro in 40 anni molte cose sono cambiate. Erano nomadi e adesso vivono nei villaggi. Vivevano seminudi, tingendosi il corpo di rosso, tinta ricavata da un fiore, e ora gli uomini indossano magliette e pantaloncini comprati ad Altamira. Parlavano soltanto la loro lingua priva di scrittura e ora parlano anche uno strano portoghese molto semplificato e siedono, bambini e adulti, sui piccoli banchi della scuola. Qualche anziano sa ancora accendere il fuoco sfregando un bastoncino su una tavoletta di legno, ma i giovani si rifiutano persino di provarci. Ormai tutti hanno gli accendini e alcuni di loro hanno al polso un orologio che non sanno leggere. L’uso delle torce elettriche a batteria farà presto sparire la prodigiosa visione notturna che i ragazzi ancora esercitano, per esempio giocando a pallone di notte, al buio.
Il passato cede ad un presente cui non ha da consegnare alcun lascito, proprio nulla di un accumulo millenario di conoscenze, parole, abilità fisiche, saggezze e follie. Anche il prestigio degli sciamani sembra compromesso, come il rispetto riverente per gli anziani, per la loro sapienza e saggezza. Se il vecchio non ha forza per accendere il fuoco con il suo legnetto, i ragazzi lo prendono un po’ in giro. La generazione precedente non lo avrebbe mai fatto; ancora quindici, venti anni fa agli anziani, ai saggi, si parlava tenendo lo sguardo abbassato in segno di rispetto.
Adesso i capi dei villaggi sono molto giovani, uomini di trent’anni, anche più giovani, e assai meno considerati gli sciamani con i quali fino a qualche anno fa il dott. Aldo si consultava per curare gli ammalati, dai quali apprendeva l’uso della farmacologia tradizionale.
In ognuno dei tre villaggi Arawete lungo il fiume Xingu c’è ora un’ infermeria, i farmaci sono pochi e di cattiva qualità, ma sufficienti a fare declinare la considerazione sociale e l’autorità dei vecchi guaritori, depositari di antichissimi saperi.
Uno di loro ha danzato in cerchio per una decina di minuti con il dott. Aldo; più una passeggiata circolare e saltellante che una vera propria danza, alla quale si sono svogliatamente accodate una decina di persone. Quando la danza è finita il dottore ha regalato al vecchio sciamano un maglietta del Brasile, quella con il numero 10, il numero che era di Ronaldino.
Adesso il dottore è circondato da un gruppetto di bambini, due donne un po’ obese e un anziano che si sgola cercando di cantare anche lui una vecchia canzone napoletana. La chitarra è dell’infermiere, un giovane dallo sguardo intelligente, che non si vede mai in giro nel villaggio e che parla anche un po’ di spagnolo.
Dalla canoa scendono due indios che avanzano rapidamente nel controluce e ripetono il lamento cantilenante che si ascolta decine di volte durante la giornata: dottoraaaaldoo, dottoraaaaldo…
Vengono da un altro villaggio, dove c’è un’emergenza. Un uomo si è sentito male, i farmaci che gli ha dato l’infermiera non sono stati efficaci e non sanno cosa fare. C’è un’ora abbondante di navigazione sulla piccola canoa per raggiungere il villaggio e il sole è ormai tramontato oltre l’immenso sipario della foresta. Potremo essere di ritorno verso le dieci, calcola il dottore, che ha restituito la chitarra e si avvia rapidamente verso la sua abitazione dalla parte opposta del villaggio. Bastano cinque minuti per preparare il sacco con i farmaci, l’attrezzatura minima di un pronto soccorso. Visto dal piano rialzato dove sorgono le abitazioni del villaggio il fiume è un luccicante serpente d’argento. Come quello che il giovane infermiere ha ucciso alcuni giorni prima con il machete, un grosso serpente velenoso che era strisciato fra i barattoli dei medicinali sistemati su un muretto interno dell’infermeria.
Il fiume invece non sembra minaccioso. Anche se sulle sue sponde può capitare di vedere qualche coccodrillo e dentro l’intrico della foresta migliaia di animali lottano furiosamente per la sopravvivenza. Sulle sponde del fiume la vegetazione affonda le radici nell’acqua, e i due mondi, quello liquido e quello solido si mescolano in un abbraccio tumultuoso. Tronchi, rami, fogliame si addensano in forme aggrovigliate e bizzarre, che sembrano inventate da un artista allucinato, fra le quali si agitano pigramente i grandi avvoltoi neri, sfrecciano gli aironi messi in fuga dal ronzio del motore, appaiono e svaniscono le ali gigantesche delle farfalle blu. Ogni tanto un maiale selvatico si avventura verso l’altra sponda del fiume, rischiando di annegare nelle rapide o di venire ucciso a bastonate da un gruppo di indios di passaggio su una canoa. In mezzo al letto del fiume svettano gruppi di palme da una terra che la stagione secca appena iniziata farà presto emergere. Alberi sottili e altissimi con una capigliatura a caschetto che ricorda quella tradizionale degli indios si staccano dal tetto della foresta e si riflettono sullo specchio tremolante del fiume.
Il dottore siede al centro della canoa. Sulla prua è accovacciato un ragazzo con una maglietta blu e i pantaloncini rossi. Guarda davanti a sé, dove i riflessi della vegetazione sono ombre che oscillano opache ai bordi della serpeggiante e lucida pista d’acqua. Il suo profilo a poco a poco scompare, corroso dall’oscurità, appena rilvelato dal chiarore della luna. L’altro indio è in piedi sulla canoa, a poppa. Alle sue spalle il disco della luna si rovescia in una vibrante pozza di luce giallastra sulle acque separate dal passaggio dell’imbarcazione. Per un’ora e mezza si sente solo il ronzio del motore e ogni tanto il fruscio delle ali invisibili di un uccello.
Al villaggio quando arriviamo non hanno ancora acceso il gruppo elettrogeno. Nel buio rischiarato da qualche fuoco acceso per cuocere il cibo guizzano i fasci luminosi delle torce elettriche. Attorno al dott. Aldo e all’infermiera, un donnone nero che potrebbe incontrarsi in un qualunque villaggio dell’africa subsahariana, si è raccolta una piccola folla vociante di bambini e qualche adulto. L’uomo, spiega l’infermiera, ha avuto alcuni collassi. Non ha febbre, non ha la malaria, ma la pressione è molto alta. L’infermiera è spaventata. Se un uomo muore nel villaggio potrebbero prendersela con lei, altre volte è successo. L’arrivo del dottore la sottrae ad un incubo.
Una piccola processione attraversa il villaggio mentre dalle capanne degli Araweté si alza la lamentosa cantilena: dottoraaaldoo, dottoraaaldoo.
L’uomo ammalato affonda nella sua amaca, le luci delle torce illuminano un volto giallastro, la pelle lucida e spessa che sembra di caucciù. Accanto all’amaca hanno acceso un fuoco. Lo fanno sempre quando qualcuno si ammala, anche se non serve a niente o può peggiorare le cose. L’aria dentro è soffocante. Il dottore si curva sull’uomo, in un silenzio interrotto solo da qualche domanda in portoghese che l’infermiera traduce in arawete. Ora la piccola folla è raccolta attorno all’amaca. Il fuoco acceso rischiara debolmente una camicia appesa a un chiodo. L’uomo, che soffre di alta pressione, nel pomeriggio è svenuto ed è rimasto per ore semicosciente. La visita dura un quarto d’ora, vengono date all’uomo due pillole e la pressione dopo un’ora si è normalizzata.
Ma il dottore non è tranquillo, e soprattutto non è tranquilla l’infermiera. Che si fa se di notte si sente di nuovo molto male? Nei villaggi gli infermieri e gli insegnanti sono gli avamposti dello Stato brasiliano. Uno Stato che elargisce pensioni agli anziani, che protegge la loro cultura o vorrebbe farlo, vietando severamente agli insegnanti di fare evangelizzazione o di spiegare agli indios che non è il sole a girare attorno alla terra, e soprattutto portando nei villaggi i televisori come supporto di mediazione linguistica e culturale. Ma il televisore non è un docile strumento al servizio di nobili strategie educative: porta fra gli indios le immagini del nostro mondo luccicante e ipertecnologico, agendo inevitabilmente come veicolo di disorientamento culturale. La sera davanti il televisore acceso grazie al gruppo elettrogeno avviene l’incontro fra uomini separati da migliaia di anni. Gli indios se ne stanno sdraiati per terra, seduti su un tronco, assieme ai loro cani, ai polli, a qualche pappagallo multicolore, in fondo continuando a farsi i fatti loro, spidocchiandosi a vicenda, chiacchierando; ma fra il mondo del villaggio che guarda distrattamente il televisore acceso e il mondo che appare sullo schermo televisivo non c’è scambio possibile.
La cultura arawete scomparirà del tutto fra un paio di generazioni, senza lasciare traccia, senza scambiare nulla, e proprio quel televisore che ogni sera accendono con l’automatismo di un rituale porterà a compimento la distruzione dell’anomalia india, perseguita con modalità spesso cruente per secoli da spagnoli e portoghesi.
Forse per questo l’intera relazione fra lo stato brasiliano e gli indios appare oggi nel segno di un grande rimorso e di una forse inevitabile ambiguità. Soprattutto gli infermieri sembrano percepiti dagli indios in modo ambivalente. Gli infermieri non sono indigeni, anche se sono costretti a vivere fra loro e come loro; hanno studiato, si sono diplomati, e soprattutto hanno l’enorme potere di curare. Gli Araweté sono pacifici, mansueti, hanno sempre subito nel passato le guerre con altre etnie, ma a volte, se si convincono di avere subito un grave torto, si incendiano e anche loro diventano violenti, cattivi. L’infermiera, se succede una disgrazia, ha motivo di avere paura.
Bisogna rimanere, dice il dottore, qualcuno procurerà le amache. A un uomo che sta rientrando nella sua capanna con alcuni pesci ne chiede un paio, sceglie i più grossi, lo prende un po’ in giro. Riso, i pesci, le banane. La cena in infermeria è alla luce delle torce elettriche, che illuminano il cibo e le mani, mentre i volti rimangono al buio.
Il dott. Aldo aveva giurato che non avrebbe più dormito nell’amaca di un indio. Ha già preso la scabbia tre volte dice, e sembra parlare più a se stesso che a chi lo sta a sentire. Il faccione dell’infermiera adesso sorride, adesso può davvero stare tranquilla. Più tardi, a mezzanotte, andrà di nuovo a misurare la pressione, poi se ne parlerà all’alba.
Di notte l’infermiera ha paura dei cani, che di giorno gironzolano fra le case, si sdraiano accanto agli uomini, forse stremati dal caldo, ma che di notte diventano aggressivi. Le amache sono già state montate nella scuola, sembrano nuove, con le zanzariere pulite e luccicanti. In realtà puzzano di muffa come tutto quello che marcisce nel caldo umido della foresta, un odore che sa di terra, di pipistrelli e di sudori disperati.
La notte è caldissima ma il dottore preferisce sdraiarsi nell’amaca vestito. Prima ha fatto la doccia al chiaro di luna. Nella scuola che ha le pareti di fango, il pavimento in terra battuta e il tetto vegetale di frasche dove brulicano colonie di scarafaggi, non c’è acqua. L’acqua è fuori, un rubinetto ad una decina di metri. Ma non si riesce a dormire. Durante tutta la notte i cani non smettono di abbaiare e i galli di strillare i loro richiami da un punto all’altro del villaggio. Senza orari, senza nessun rapporto con il buio e il ritorno della luce.Un giorno o l’altro li ammazzeranno tutti quanti. Si sveglieranno e li ammazzeranno tutti, dice il dottore sgusciando fuori dall’amaca con la prima luce del giorno.
Che gli Arawete si siano trasformati in allevatori di polli più che divertirlo sembra scandalizzarlo, anche se ne parla ridendo. Per lui gli Arawete sono come dei bambini. Come fossero dei bambini li accompagna quando vagano sperduti per le strade asfaltate di Altamira, quando cercano un negozio dove comprare le bibite gelate e frizzanti. Come fossero dei bambini li riempie di piccoli doni quando ogni anno li viene a trovare. Ma il dottore manifesta anche un rispetto assoluto nei confronti della loro cultura, con la quale non vuole interferire. E’ per questo che non ha mai discusso con loro della diga.
Si parla di costruirla da trent’anni e il presidente Lula sembra adesso intenzionato a realizzarla. Contro alcune etnie di indios, contro ambientalisti, scienziati, qualche star internazionale del mondo della canzone o del cinema, ma con il consenso di quel Brasile che dentro la crisi viaggia con aumenti annui del PIL di poco inferiori al 10% e che ha un bisogno famelico di energia. Anche il dott. Aldo è contrario alla diga, che aumenterebbe il livello del fiume Xingu devastando il contesto ambientale degli Arawete e degli altri gruppi etnici che vi abitano. Qualche anno fa pensava che se avessero realizzato la diga non sarebbe più tornato fra i suoi indios. Che non avrebbe voluto vedere più quel paesaggio distrutto, manomessa la sua struggente, violenta, imponente integrità. Poi ha capito che proprio allora ci sarà più bisogno di lui. Quando i suoi Arawete, nobili e bambini, misteriosi e buffi, si avvieranno verso l’ultima scena della loro agonia.
L’uomo che era stato male è in piedi davanti la sua casa. Si sente meglio, ha dormito bene tutta la notte. Il dottore gli misura la pressione, è normale. Sul fiume due indios aspettano sulla canoa ormeggiata.
Le foto sono tratte dal volume “Con i suoi occhi”, di Tano Siracusa