di Giulia Laiola
Avevo sette anni, quando mi hai regalato un libro di favole “L’albero del riccio”, non il primo in assoluto, si capisce ; ma il primo nel momento in cui hai compreso che mi piaceva leggere, sebbene sapessi farlo da poco.
Mi hai detto anche che non era un comune libro di favole, come quelle che mi raccontavate tu o la mamma.
Era un libro che un signore aveva scritto mentre si trovava chiuso in un carcere in una cella minuscola e angusta, così piccola che bastava che allargasse le braccia per toccare le pareti.
Era lì dentro, per le proprie idee. In gabbia, per le proprie idee hai ripetuto e che non le avrebbe mai cambiate a costo della sua libertà.
Sono sicura di averti guardato senza capire, anzi, ricordo di aver provato un senso di inquietudine e di tristezza quando mi hai detto che erano dedicate ai suoi figli sotto forma di lettera e che era soprattutto un espediente per sapere di loro, per conoscerli, nonostante la distanza imposta dalla reclusione.
Mi sentii schiacciata da queste premesse troppo grandi per i miei pochi anni, pensando che, forse, sarebbe stato meglio se mi avessi regalato una Barbie, visto che tu e la mamma vi eravate coalizzati affinché non ne ricevessi mai una in regalo, neppure dai nonni.
Adesso che ho trentanove anni, cercando fra i miei vecchi libri a casa tua, che è pure mia, ma sempre meno,invero, è saltato di nuovo fuori.
E’ caduto sul mio piede nudo, (camminare scalza è un’ abitudine che non m’abbandona, se ci pensi) quasi a voler far sentire tutto il suo peso.
L’ho sfogliato di nuovo, le pagine avevano delle macchie gialle, come quelle delle tue mani, ora che sei nonno.
Ho riletto qualche frase qua e là e di quel senso di stranezza e di inquietudine non c’era traccia.
C’era la bellezza dello scritto, di un uomo, di un padre, di un carcerato.
Senza sentimentalismi vacui, solo amore pratico.
Spesso ti chiedi che cosa faccia un padre per i figli, nello spettro della eterna competizione con quello che fa una madre.
Se si possa fare a meno di un padre, hai qualche volta pensato.
Quello che posso dirti adesso è che mi porto dietro un lungo elenco di cose che neppure tu sai di avermi dato, perché è nella tua inconsapevolezza e nella tua naturale distrazione, che si è formato quello che conosco, il mio modo di pensare, di agire.
Non vedi come questi siano la felice evoluzione del tuo modo di pensare?
E’ nell’ esserti speculare che si cela quello che tu hai fatto per me e credo possa esserti di conforto se sono come tu mi conosci.
Tu non lo sai, ma durante la mia prima gravidanza occupavo il mio tempo a teorizzare una educazione altra da quella ricevuta.
Qualcosa di più moderno, certamente, pensavo.
Non è stato così, non è così e non lo sarà.
Mi pare quasi superfluo adesso metterti al corrente che anche i tuoi nipoti leggeranno “l’albero del riccio”, questa volta però senza nessuna premessa, se mi consenti.
Ecco cosa può aver fatto Gramsci