di Vito Bianco
Ogni volta che faccio un giro lento dentro un museo o una mostra, con salti e soste senza criterio e dettate dal solo arbitrio del gusto e delle idiosincrasie, mi ritrovo a pensare alla superiorità asserita da Alberto Moravia della pittura sulla letteratura, e che lui difatti artista visivo avrebbe voluto essere e non narratore.
Non so se abbia ragione Moravia, fatto sta che al cospetto della pittura, della grande pittura, viene quasi spontaneo propendere per la sua superiorità, almeno per la durata della visita e dei suoi effetti nella memoria.
Ci ho ripensato anche l’altro giorno tornando a percorrere le sale del Museo del Novecento di Milano spinto dalla voglia di vedere i nuovi futuristi aggiunti ai precedenti i quali ora insieme completano una luminosa sala rettangolare con una nicchia cubista non casuale formata dal canonico duo Bracque Picasso dei primi anni Dieci – il primo più eccitante del secondo.
Tra i pezzi per me più notevoli, Ritratto della signora Busoni, Ritratto della madre, Sotto il pergolato a Napoli del ’14 e La carica dei lancieri di Boccioni e il Depero del Ritratto di Gilbert Clavel, 1918, geometrico e lineare, quasi costruttivista.
Ci sono ovviamente altre cose magnifiche: di Severini, di Balla, di altri meno noti, e per vederle come meritano bisognerebbe tornarci una volta alla settimana, magari avendo la possibilità di sedersi davanti ai quadri per riguardarseli con calma, possibilità che al momento è negata al visitatore pagante, e non si capisce il motivo.
Da qui, dopo un salto indietro al Terzo stato di Pellizza per annotare meglio il particolare del bambino sulla destra che guarda il padre come per chiedergli qualcosa, proseguo lungo l’itinerario del Novecento italiano in arte visiva che antologizza quasi tutto il nostro meglio, dal figurativo Pirandello all’astratta Accardi al materico Fontana all’informale Vedova passando per l’essenziale, stenografico Licini e l’incanto silenzioso, religioso di Morandi, nature morte e paesaggi, scuri e chiari.
E poi la rossa Festa cinese di Mario Schifano, enorme e solitario in un disimpegno di collegamento, i manichini di De Chirico, Sironi… E infine la gran sala dedicata a Marino Marini che ospita molte cose potenti, intime, assorte di questo raffinato maestro della scultura: tra queste, le teste dei colleghi artisti (Chagall, Moore…), la Bagnante corposa e intoccabile, l’Angelo bianco che si para davanti alle piccole statuine in movimenti disparati, sottili come se fossero di Giacometti ma diverse perché quelle di Marini sono di questo mondo e non dell’altro.
Prima di uscire mi sono seduto su una sedia di plastica nella sala da cui si può vedere il Duomo e la piazza con le discusse e discutibili palme e via vai diuturni di gente. Due musicisti (pianoforte e violoncello) stavano provando le prime battute di un pezzo. Ho chiuso gli occhi e mi è tornata in mente un aforisma di Baudelaire: “La musica scava il cielo”. E la pittura? Cosa fa la pittura?
foto di Vito Bianco