di Alfonso Lentini
Scusi, mi sono confuso. Credevo fosse mio, invece era suo. Chiedo scusa, non lo avevo capito. Certo, ora mi rendo conto, ma credevo che in questo vostro paese ci fosse il comunismo, cioè che tuo e mio fosse uguale, tutto in comune. L’ho visto, mi è piaciuto e l’ho preso; mangiato in un boccone. Non sapevo che fosse solo di uno, che qua avete ancora tuo o mio. Avrei commesso un furto, dice? Ma si potrebbe anche pensare che a commettere furti sia chi dichiara questo è mio. O forse no? Mi scusi, sono confuso; ma ormai l’ho mangiato tutto, non è rimasta neppure una briciola (era squisito!). E ci ho bevuto sopra un buon bicchiere. Non saprei proprio come risarcirla, adesso. Di mio non ho niente, sono vestito di sacco, come vede. Vuole un dito, un’orecchia, una pupilla? Ho solo cose così, altro non ho. Se vuole, potrei strofinarmi un po’ di cenere sul capo, per mostrarle la mia umiliazione. Ma io vengo da molto lontano e non posso sapere tutto del vostro luogo e del vostro tempo. Avete ancora le carrozze trainate da cavalli? Ah, sono trainate da scimmie, dice? È vero, mi sbagliavo. E i razzi che navigano verso le stelle, li avete ancora quei meravigliosi razzi che solcano lo spazio con le loro scie di fuoco? E i dischi volanti? Dove sono andati a finire i dischi volanti? Li avete incontrati, poi, gli alieni? E Dio? Come è fatto Dio? Che aspetto ha? Con tutte quelle teologie potenti che avevate, sembravate sul punto di scoprirlo. E il pianeta, lo avete ripulito alla fine il pianeta? Avete ripreso a piantare alberi? Avevate un’atmosfera tutta buchi, tutta sozza, mi pare. Come è andata a finire con l’atmosfera?
E gli inviti a cena, li fate più? Cucinate ancora gli spaghetti col nero di seppia, la parmigiana di melanzane, i pizzoccheri, la polenta taragna, fate la marmellata di vespa? Ci risulta che vi sedevate tutti intorno a un tavolo e mangiavate insieme di gusto e bevevate vino in abbondanza e a quelle cene invitavate sovente Annamiranda, la bellissima dai riccioli d’oro. Che donna, Annamiranda. Ne eravate tutti innamorati! Se la ricorda anche lei, vero? Che fine ha fatto Annamiranda? E le guerre? Fate ancora le guerre? Chi combatte contro chi, nel vostro tempo? E i virus, li avete debellati i virus? Dicono che certi virus maligni erano così ingrassati, rigonfi, che sembravano balene spiaggiate e qualcuno voleva combatterli a colpi di fucile o di bazooka. E quei batteri grossi come rospi, che fine hanno fatto? E le rose? Avete ancora le rose o si sono già estinte? Da noi ce ne sono immense praterie, di rose; rose multicolori, profumatissime, ma da voi? E papi? Quanti papi avete ucciso finora? Quanti imperatori? E quanti professori, quanti manovali, quanti cameraman, quanti passanti avete assassinato? Ammazzavate sovente le donne, ci risulta. Tante, pare. Mi sa dire quante ne avete uccise, di donne? E perché così tante?
E i ricordi, dove li tenete? Li chiudevate in certe scatole che conservavate al buio, mi sembra. Ma col passare del tempo l’aria e l’umidità li deformavano, i ricordi; e qualcuno addirittura ammuffiva, ricoprendosi di una schifosa peluria verderame. Quando vivevo nel vostro paese, anch’io avevo una scatola simile, ma non funzionava bene. E a lei, funziona bene la sua scatola di ricordi? La mia era rigida, nera, non troppo spaziosa, però; e si riempiva subito, troppo presto.
E che musiche fate? Avete inventato il pianoforte? Sappiamo che suonavate il salterio, l’arpa eolica, il clavicembalo, lo scacciapensieri. E il violino, che sembra un dolce lamento, lo suonate il violino? Io vengo da molto lontano, mi scusi, perciò non posso sapere. Il pianoforte, per esempio, non so se lo avete ancora o se non lo avete più. Ah, ecco, intendo. La vostra musica consiste in questo: suonate seduti ognuno sulla sua sedia elettrica, battendo chiodi con un grosso martello, spaccando vetri, prendendo a pugni un orso o un lupo. Capisco. Ed è vero che le vostre case, i vostri campi, le vostre montagne sono piene di zeri, zeri dappertutto? Lei per esempio quanti ne tiene a casa sua, di zeri? E scale? Per entrare in casa quante scale fate? Ah, non avete scale? Neppure a casa sua ci sono scale? E i capitelli dei vostri Templi, in che stile sono? Dorico, corinzio? Non avete stili, dice? A me veramente questo sembra assurdo, ma se me lo dice lei ne prendo atto.
Quando vivevo nel vostro paese, ma non so più in che tempo, abitavo in una casa in cima a una collina. Una casa di pietra, povera, persa in mezzo alla stoppia. C’era qualcosa però che la rendeva speciale, quella casa: una grande finestra, una finestra spalancata verso il Sud. Da quella finestra si vedeva il mare, un mare caldo e calmo, dai colori instabili, che cambiavano col mutare delle ore e delle stagioni. Verso sera diventava scuro, blu indaco. E la casa si riempiva di un profumo che affiorava da lontano, un profumo salato, quello della salsedine che impregnava le squame del pesce messo ad essiccare sulla spiaggia. C’è ancora la spiaggia da voi? So che ogni tanto, anche di notte, approdano in quella vostra spiaggia certi barconi carichi di gente in fuga. E voi cosa fate quando arriva tutta quella gente? Non credo sia vero, ma qualcuno mi ha detto che li ributtate a mare, li ricacciate indietro, come se ci fosse una guerra e loro fossero i nemici. Invece sovente non sono che bambini, donne gravide, malati. Nel trambusto, qualcuno annega, naturalmente. Così mi hanno detto, ma io non ci credo. Lei ne sa qualcosa? Ah, succede davvero qualche volta, lei dice? E lei cosa fa, quando succede? Va al Tempio? A fare cosa, al Tempio? A pregare gli dèi, dice? Capisco, certo. E cosa se ne sa di Annamatilda che aveva solo quindici anni ed è scomparsa senza lasciare traccia ? Mi ricordo vagamente di Annamatilda. Certo, non era bella come Annamiranda. Lei lo sa perché lo ha fatto, Annamatilda, perché è andata via? Ah, neanche lei si ricorda. Avrà preso un treno, dice. Sono fatti insignificanti e passano subito di mente. Da qualche tempo, in effetti, nel vostro paese ci sono persone che scompaiono. Partono, si dissolvono. Chissà dove vanno. Ma io ero amico di Annamatilda, quando vivevo nel vostro paese; la conoscevo bene. Eppure anch’io l’ho quasi dimenticata, sa? Un fatto insignificante, in effetti; una partenza come tante altre. Però mi sono rimasti in mente quei suoi occhioni nocciola e li rivedo che sembrano galleggiare senza niente intorno. Quando vivevo nel vostro paese sovente anch’io prendevo treni e carrozze. Viaggiavo. Mi inoltravo in certe mulattiere tutte curve sino in cima alle montagne e poi ridiscendevo giù, in pianura. E mi perdevo.
Ci risulta che i vostri tecnici hanno disegnato una mappa così perfetta e immensa che ha le identiche dimensioni del vostro paese e coincide perfettamente con esso. L’hanno sospesa nel vostro cielo, la aggiornano continuamente ed essa rilette ogni particolare del vostro territorio, compresi i fili d’erba o le impronte lasciate sul fango da ogni passante. Chiunque può farsi guidare dalla mappa consultandola attraverso un piccolo ordigno che tiene in tasca. Eppure non è bastato, la gente continua a perdersi, a scomparire. Così ci raccontano, almeno; ma non so se è vero. Lei cosa ne dice? All’improvviso mi viene da pensare ai libri. Ah, non sa cos’erano i libri? Per la verità neanche io lo so più tanto bene, ma devono essere stati importanti per un certo periodo. Dovevano somigliare alle scatole dei ricordi o alle mappe, perché ogni tanto si andava a interrogarli. Dicono che i libri smuovevano i sentimenti. C’era gente che tenendo in mano un libro piangeva. O rideva. O si indignava. Poi però i libri sono scomparsi, chissà dove sono finiti, i libri. Lei dice che forse hanno cambiato aspetto? Potrebbe avere ragione, sa? E mi dica: perché la gente non va più negli ospedali? Non so se avete debellato i virus, ma non posso pensare che le persone non si ammalino più. Allora perché non vanno più negli ospedali? Ah, dice che di ospedali non ne avete? Tutti chiusi. E se uno muore, a quanti metri sotto terra lo seppellite? Centinaia di metri? Oppure i morti li lasciate incartapecorire al sole, distesi in fila davanti al mare? Dicono che da voi, se uno nasce imperfetto, lo buttate giù nel vuoto da una certa rupe, ma sarà poi vero?
Al mio paese girano voci strane su di voi. Dicono che nel vostro cielo ci sono due lune. Nella notte dei tempi ce n’era una sola, si racconta, ma a un certo punto sarebbe esplosa e si sarebbe sdoppiata. Raccontano che avete alberi capaci di crescere sino all’altezza di tremila metri. Che avete cinque sessi e sette braccia. Che avete sviluppato una dentatura simile a quella dei coccodrilli. Che siete tutti ciechi. E si dice persino che avete inventato una macchina per fotografare i sogni. Tutte fandonie, ovviamente. Io non ci credo, ma è per questo che sono tornato da voi, partendomi con gran fatica dal luogo remoto dove abito. Voglio sapere, aprire un’inchiesta. Voglio la verità.