di Vito Bianco
Uno dei saggi del nuovo e come sempre appassionante libro di Carlo Ginzburg, La lettera uccide (Adelphi) è dedicato a Montaigne. L’ipotesi che guida la lettura ravvicinata del grande storico torinese è tanto affascinante quanto sottilmente perturbante: Montaigne, di famiglia ebraica convertita al cattolicesimo, potrebbe essere stato un “marrano”, e cioè un finto convertito rimasto segretamente devoto alla religione degli antenati. Vanno in questa direzione indizi testuali e para testuali (una data manoscritta ironicamente allusiva a una festa ebraica durante la quale ci si può mascherare).
Qui però vorrei soffermarmi su uno dei brani citati da Ginzburg, che rimanda obliquamente al “Segreto di Montaigne” (è il titolo dell’inchiesta filologica) e che al contempo è possibile usare come spunto per una rapida riflessione su un tema che ha percorso un lungo arco temporale, dall’antichità classica ad Agostino, da Vittorio Alfieri a Freud e alla psicologia del profondo: la conoscenza di sé. È possibile? È raccomandabile?
Montaigne si propone, scrivendo i Saggi, di ritrarre se stesso senza “affettazione né artificio”, “al naturale”. Ma il programma, che può apparire semplice, è in realtà complicato. Perché l’uomo, scrive, “è invero un soggetto meravigliosamente vano, vario e ondeggiante. È difficile farsene un giudizio costante e uniforme”. E quel che vale per l’uomo geralmente inteso, per il prossimo e per il lontano, vale altrettanto per sé, per il soggetto che dice io e che ha la pretesa di conoscersi meglio di quanto conosca qualsiasi altra cosa.
Questo lento smottamento della sicurezza iniziale, si è trasformato, nel terzo libro uscito otto anni dopo il primo (1588) in una valanga che ha provocato un totale rovesciamento della prospettiva: non soltanto non è più possibile ritrarsi al naturale, ma il più vicino, il più conosciuto (se stesso) ha acquisito i tratti perturbanti dell’estraneità, di ciò che non si riesce a conoscere.
“Non ho visto prodigio né miracolo al mondo più evidente di me stesso” scrive Montaigne; parole che hanno al nostro orecchio un timbro ormai familiare. “Prodigio”, ovvero apparizione fantastica del tutto imprevista. “Miracolo”, ovvero fenomeno che esorbita dal corso ordinario della natura. “Ci si abitua a ogni stranezza con la consuetudine e col tempo” prosegue lo scrittore francese, “ma più mi frequento e mi conosco, più la mia difformità mi stupisce, meno mi capisco”.
Sembra di sentire Vitangelo Moscarda, il tormentato narratore di Uno, nessuno e centomila, o il dostoevskiano uomo del sottosuolo. Ci si abitua a ogni stranezza, ma non alla più strana di tutte: noi stessi davanti a uno specchio. Tre secoli prima del medico viennese l’io non è più padrone a casa sua, l’inconscio reclama i suoi diritti. Non solo; in sintesi, è già il programma del modernismo letterario europeo, che metterà al centro della lente quella “difformità” e quella “incomprensione”, con risultati imprevedibili e rivoluzionari, proprio nel senso astronomico della parola.
L’esortazione dell’iscrizione sul frontone del tempio di Apollo a Delfi (“Conosci te stesso”) è diventata, col passare del tempo, un’impresa impossibile ma proprio per questo affascinante, seducente, e a rischio di spiacevoli sozrprese, che non sempre vale la pena di tentare. Come ha detto qualcuno, a volte, a non conoscersi, ci si guadagna: si sta più tranquilli e si fanno sogni meno agitati..