di Vito Bianco
Teheran, ai nostri giorni. Rahim, giovane padre separato con un figlio ancora piccolo con problemi di espressione verbale, sta scontando un periodo di detenzione per non aver onorato un debito. A denunciarlo è stato il fratello dell’ex moglie, che aveva pagato per lui la cifra al creditore, esasperato per non aver ancora ricevuto, dopo tre anni, il rimborso della cifra anticipata. La somma gli era servita per avviare una attività commerciale insieme a un socio, ma le cose non erano andate come aveva sperato. È a questo punto che comincia il bellissimo Un eroe dell’iraniano Asghar Farhadi (Una separazione, Il cliente), vincitore a Cannes del premio speciale della giuria, e lentamente la trama si complica, il mosaico si infittisce di figure, il dramma del protagonista si arrichisce progressivamente di sfumature, particolari e scivolose reticenze fino a comporre un racconto morale di raffinata e sottile scrittura, ambiguo, seducente, che chiama alla partecipazione e al giudizio lo spettatore, attirato sin dalle prime scene dentro il conflitto tra i due contendenti e sollecitato a prendere posizione sui fatti e i comportamenti dei molti personaggi coinvolti nella patetica e conflittuale vicenda: il marito della sorella, il ragazzo che in silenzio soffre le disavventure del padre, la fidanzata sempre dalla parte del protagonista, i cinici uomini della prigione, un tassista forse troppo pronto ad aiutare…
Rahim, fuori dal carcere con un permesso, trova una borsa femminile che contiene delle monete d’oro. La fidanzata gli suggerisce di venderle e dare il ricavato al cognato, al quale chiede di farlo uscire di prigione in cambio dell’impegno a restituirgli il resto del denaro entro breve tempo. Lui prima segue il consiglio della donna, ma poi ci ripensa e fa in modo che la proprietaria ritrovi la borsa e i soldi.
La storia dell’ammirevole restituzione diventa rapidamente pubblica per volontà del direttore del carcere e di un suo stretto collaboratore, che vi vedono l’occasione per dare una riverniciata all’immagine appannata dell’istituto penitenziario. Rahim viene intervistato dalla televisione, finisce sui giornali, diventa l’eroe del momento. Scatta una gara di solidarietà, lanciata da una associazione benefica, per raccogliere la somma necessaria a estinguere il debito, alla quale partecipano anche i compagni di detenzione di Rahim, che per la sua buona azione riceve l’offerta di un lavoro in una delle sezioni della prefettura.
Polemico, esasperato dalla lunga attesa e dalle mancate promesse e aspramente critico nei confronti di Rahim, che continua a considerare inaffidabile, l’ex cognato si lascia infine convincere a ritirare la denuncia, ma difende con forza le sue ragioni e il valore del suo gesto generoso (per tirarlo fuori dai guai ha dovuto impegnare la dote della figlia) contro quello che considera – la restituzione della borsa – un’azione di ordinaria onestà. Perché allora tanto chiasso? La fortuna di Rahim avrà però breve durata: sui social qualcuno insinua che la storia è falsa, costruita ad arte dalla direzione del carcere; chi deve assumerlo vuole prove certe, parlare con la donna, dissipare ogni dubbio. Il mite Rahim si dispera; e fa due passi falsi: aggredisce l’uomo che una volta l’ha salvato ma che ora lo detesta, e mente per ottenere il posto che gli cambierebbe la vita.
In una città polverosa e di sole debole, di cantieri, vicoli, negozi bassi addossati l’uno all’altro, case affollate e modeste, Farhadi orchestra con inappariscente maestria visiva uno sfaccettato apologo etico sulla ambiguità del cuore umano, inguaribilmente diviso tra rettitudine e inganno, bontà delle aspirazioni e ineliminabile opacità dei moventi. Di questo antico e sempre rinnovato conflitto, Rahim è la perfetta, dolente, indimenticabile incarnazione.