di Nuccio Dispenza
Firaz lo trovano rannicchiato nel bosco. Quando le torce fanno luce tra i cespugli, il ragazzo ha un foglio in mano: una scritta in inglese chiede asilo politico alla Polonia. E quando gli danno da indossare indumenti asciutti, i soccorritori illuminano la sagoma della Palestina tatuata sull’avambraccio. Lui la Palestina non l’ha mai vista, ma la porta, indelebile, sulla pelle e soprattutto nel cuore, per quel nonno che dalla terra dei padri dovette fuggire nel 1948 per riparare in Siria. Firaz, uno dei tanti soccorsi dai polacchi di buona volontà che la loro resistenza, quella dei padri e dei nonni contro nazisti e scomodi vicini, adesso la interpretano resistendo al regime di destra che hanno in casa, dando soccorso ai profughi che arrivano in Bielorussia e provano ad entrare in Polonia, saltando il muro di filo spinato o attraversando le gelide acque del fiume di frontiera.
Firaz c’è riuscito ma ha paura, per questo continuava a nascondersi nei boschi, così fino all’arrivo dei volontari del Gruppo Granica. Da loro un abbraccio, vestiti, qualcosa di caldo, da mangiare e un sostegno legale che non lo lasci solo davanti al muro di un potere, quello di Varsavia, violentemente xenofobo, propenso ai respingimenti. Tante storie di qua e di là del filo spinato tra Bielorussia e Polonia, per lo più non verranno mai raccontate, non se ne conoscerà l’inizio e la fine. Poche ci arrivano, come questa raccolta da un gruppo di volontari e un inviato di Oko.press.
Firaz era arrivato in ottobre in Bielorussia, obiettivo la Polonia, l’Europa. Dentro, un segreto, alle spalle la sua martoriata Damasco. Siriano, ma che con orgoglio ripete: “Sono un palestinese, la mia patria è occupata”. Lungo la frontiera con la Bielorussia, in questi mesi i polacchi hanno dato il meglio: alle finestre di tanti, sulla porta di molte case, una lanterna verde rassicura chi chiede aiuto. Firaz ha chiesto aiuto per telefono. Lungo queste frontiere i meccanismi per chi soccorre i profughi non sono dissimili da quelli che conosciamo lungo le rotte del Mediterraneo. Ricevuta la segnalazione ( c’è una apposita applicazione che fa scattare l’allarme ) i volontari, guidati da un residente che conosce i sentieri e gli anfratti, sono entrati nella foresta, di notte. Trovare Firaz non è stato facile. Chi fugge a due guardie di frontiera contrapposte, unite nel cacciare uomini, donne e bambini in cerca di futuro, si sente al sicuro soltanto se solo o al fianco di chi divide con lui disperazione e speranza.
Quando i volontari lo trovano, Firaz è sdraiato a terra e trema per il freddo e per le ferite, non in grado di camminare, di muoversi. I volontari comunicano con lui in un inglese, l’emergenza li ha spinti ad imparare qualcosa di arabo. Sanno che per tanti è rassicurante. La conversazione resta difficile, Firaz ha paura d’essere riportato in Bielorussia, piange, ripete che vuole chiedere asilo in Polonia, chiede un medico per le ferite alle gambe. Le guardie bielorusse lo hanno picchiato. Con i volontari accanto i soccorsi, le divise non faranno paura. “Tranquillo”, lo rassicurano, non ci sarà un’altra notte al buio e al freddo. “Amo la Polonia!” ripete Firaz mentre lo portano in una struttura di prima accoglienza. L’udienza per avviare le pratiche di asilo saranno l’indomani.
E’ domenica mattina, appuntamento alla Corte di Augustów, Firaz arriva ammanettato con le pantofole che gli hanno regalato ai volontari. Stenta a camminare. Al termine di una breve udienza, il giudice decide che Firaz vada in un centro sorvegliato, inutile il tentativo dell’avvocato di ottenere la libertà in attesa dell’asilo. Non è bastato il racconto delle violenze fisiche e psicologiche che Firaz ha vissuto. I centri di prima accoglienza. Il Commissario per i diritti umani e le associazioni per la prevenzione della tortura ad ottobre avevano denunciato lo stato di centri come quello dove è stato destinato il giovane siriano. A Wędrzyn, ad esempio, i rifugiati attendono il loro destino in sostanziale detenzione, in edifici che non sono altro che una prigione, circondati da filo spinato. Peraltro, il centro destinato a Firaz si trova in un campo di addestramento militare e i profughi sono costretti a convivere col suono sinistro di spari ed esplosioni che a loro ricordano la realtà dalla quale fuggono. In Siria Firaz li ha sentiti per interminabili anni. In questi centri si attende per mesi e mesi, e non è raro che qualcuno non resista e tenti il suicidio. “Non posso tornare indietro, mi ucciderebbero”. Firaz svela il suo segreto, il segreto della fuga. Firaz, è vero, ha dovuto lasciare la Siria per la fame e per l’inferno nel quale la guerra ha sprofondato il Paese, ma anche perché ha visto quel che non avrebbe dovuto vedere, si è trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato: ha assistito allo stupro di una giovane donna e ha cercato di difenderla. Ha scoperto poi che lo stupratore era un ufficiale della IV Divisione corazzata, un’unità d’élite in Siria, quella incaricata di difendere Assad, la sua persona e il suo regime.
Una Divisione famigerata, accusata di sistematiche violazioni dei diritti umani, di detenzioni illegali, di pestaggi e sparatorie contro manifestanti disarmati. Secondo il New York Times, questo corpo armato di fedelissimi ad Assad è coinvolto anche nel traffico illegale di droga. E Firaz era entrato nel mirino, era un testimone scomodo. Pericoloso ma bastava poco per farlo sparire nel nulla. Non gli restava che la fuga, un motivo in più per fuggire, con tutte le incognite di una fuga disperata, fatta di ostacoli insormontabili. Alle spalle, la casa violata, il suo negozio di riparazione e vendita di telefoni cellulari, nel centro di Damasco, demolito, minacce e intimidazioni la sua famiglia. L’anno volgeva alla fine, si annunciava il 2022 e Firaz con la fuga si caricava sulle spalle la vendetta dell’uomo di Assad, sperando di salvare così la sua la sua sposa, i suoi figli.