di Nuccio Dispenza
Naval Soufi, conosciuta come l’angelo dei profughi, è l’attivista catanese nata in Marocco e venuta in Italia quando era un fagotto, solo un mese. Ora di anni Naval Soufi ne ha 33, e col suo lavoro probabilmente ha salvato migliaia di persone dalla morte, dall’annegamento in mare nel Mediterraneo.
Naval Soufi usa i social per salvare la vita ai profughi, tutelare i diritti dei migranti. In arabo il nome della giovane catanese vuol dire dono, un segno del destino. Il lavoro di Naval Soufi è conosciuto più all’estero che da noi, dove pure ha avuto qualche attenzione dai media, qualche eco ha avuto il suo progetto solidale “Adotta un migrante”.
Di Naval Soufi si conosce meno il suo impegno su altre rotte, come quella balcanica, di Soufi non si sa invece che è diventata punto di riferimento, modello di un progetto che si è avviato, e cresce, al confine tra Polonia e Bielorussia.
Lungo questa rotta di migrazioni che oggi ha le tinte più dolorose si è applicata l’idea di fare rete, di puntare sui social per scavalcare i confini, per salvare e aiutare chi fugge da fame e guerra.
Nel Mediterraneo o nella sconfinata foresta innevata che unisce Polonia e Bielorussia, le armi per salvare chi fugge in cerca di un luogo più sicuro possono essere le stesse. Lo sanno bene i volontari e gli attivisti di “Hope & Humanity Poland” che in Naval Soufi hanno trovato un aiuto, preziosa esperienza da applicare al loro lavoro. Impegno altrettanto difficile di quello servito nel Mediterraneo per strappare decine di migliaia di vite alla morte.
A raccontare del modello Naval Soufi in versione polacca è OKO.press, giornale on line indipendente, fortemente impegnato su questo fronte, in difesa dei diritti civili e delle donne, prime vittime del governo di Varsavia.
Tra Polonia e Bielorussia da un paio di settimane si costruisce un muro che alla fine sarà lungo più di 180 chilometri e alto 5 metri. Insormontabile, ancora un muro.
Anche questo lo si potrà vedere dallo spazio, nuova cicatrice procurata delle ingiustizie del nostro tempo. Il muro costerà 1,6 miliardi di zloty, economicamente peserà su un Paese che sta pagando la politica dissennata di un governo xenofobo, illiberale e nemico giurato delle donne. Non farà differenza tra uomini in fuga, fauna e flora, falcerà gli uni e le altre. La foresta polacca, lì dove si stanno consumando tragedie individuali e l’ennesimo scandaloso crimine contro l’umanità, è un pò l’Amazzonia d’Europa. Quei 180 chilometri di cemento saranno una ferita dalle conseguenze imprevedibili sugli uomini e sulla natura.
Gli amici di Naval Soufi si spingono fin sotto il filo spinato a portare aiuto anche a chi è rimasto impigliato nel tentativo disperato di saltare in Europa, lasciandosi alle spalle la Bielorussia. Raccontano che a volte sono aiutati dalle stesse guardie di frontiera bielorusse. Si spingono anche oltre confine, aiutano i profughi fermi da mesi nelle grandi città bielorusse. E lo fanno affidandosi ai social.
Comprano on line dalla Polonia, fanno arrivare il cibo agli indirizzi giusti in Bielorussia. Stesso meccanismo per prenotare e pagare i taxi a chi si deve muovere dalle grandi città bielorusse, dove può essere più facile nascondersi, per avvicinarsi, nel giorno buono, alla frontiera, potendo contare su chi in Polonia si è intestato questa lotta di resistenza.
La vita di profugo in fuga non è facile, c’è chi è costretto a desistere, a tornare indietro. Lo hanno già fatto molti curdi, difficile se non impossibile che lo facciano i tanti siriani che aspettano di entrare in Europa dalla Polonia. Loro alle spalle hanno il vuoto, per loro tornare può voler dire morire, perché qualcuno ha una condanna addosso, sa che tornando andrebbe in prigione. C’è anche chi è fuggito ad una sentenza di morte che ha gli ha sterminato la famiglia.
“Abbiamo persone che nel loro Paese si sono nascoste per anni “, dicono i volontari. Giovani, ragazzi che fuggono dall’esercito di Assad. “O uccidevo o mi uccidevano”, raccontano. Profughi in Bielorussia è duro, ma almeno han portato in salvo la vita. Per la fuga, si sono disfatti di tutto, hanno fatto debiti che non avrebbero mai potuto pagare: “Conosciamo una coppia, sposata, con un figli – raccontano i volontari polacchi – che in Kurdistan aveva preso in prestito una cifra pari a quanto avrebbero potuto guadagnare in 10 anni”. Impossibile, dunque, tornare indietro, non hanno altra scelta che rimanere in Bielorussia, illegalmente, perché i visti dopo un mese cessano di essere validi.
La situazione più dura, quella dei siriani. A loro negato ogni visto, a loro non resta che trovare quattro mura a Kiev o a Brest dove murarsi, senza mai uscire. Hanno paura pure di andare in un negozio all’angolo per comprare da mangiare. Per questo interviene la rete di “Hope & Humanity”: fanno arrivare quel che occorre con un corriere ufficiale, comprando on line dalla Polonia.
Umanità disperata come merce da gettare sul tavolo delle trattative politiche e diplomatiche. Quando Lukashenko decide che bisogna fare pulizia in città perché quei profughi non servono più al braccio di ferro nelle nuove tensioni tra Europa e sfera putiniana, i profughi vengono rastrellati. Si, i volontari parlano proprio di rastrellamenti: “Li cercano nelle strade, nei negozi, nelle farmacie, nei luoghi dove può esserci per loro il minimo aiuto, lì dove cercare abiti più pesanti di quelli che si sono portati addosso dalla Siria o dall’Iraq”. Spesso, anche la richiesta di asilo politico finisce con la deportazione. Molti, disperati, bussano alla porta dell’ufficio dell’UHCR, chiedono un visto per restare in Bielorussia. Se proprio non è possibile andare oltre, sempre meglio restare in Bielorussia che tornare indietro, pochissimi quelli che ci sono riusciti, molti gli espulsi. Chi viene deportato, trasferito in un terribile campo prossimo al confine russo, lì per almeno sei mesi. I curdi deportati (e per questo in tanti tornano a casa ), i siriani, una volta individuati, ricevono un primo avvertimento: lasciate la Bielorussia entro 7 giorni, pena la galera. Ecco perché i siriani vivono tappati in casa, se sono riusciti a trovarne una.
La rete di soccorso è l’unica salvezza, li individua, scatta la segnalazione, in rete si acquista il necessario, lo si fa arrivare ai profughi che vivono nel terrore della deportazione, dell’espulsione. Così per i farmaci, come nel caso di un ragazzo di 16 anni che soffriva di epilessia. All’interno della rete ci sono tutte le figure professionali necessarie: medici, avvocati, psicologi. Trovano un tetto, assicurano un intervento medico, assistono legalmente chi chiede asilo. A volte si fa urgente spostare i profughi da una casa ad un’altra più sicura, ma i tetti disponibili non sono mai sufficienti. L’obiettivo resta trovare un approdo a chi fugge. Si prova con il Libano per i curdi, ma lì puoi arrivarci solo come rifugiato, senza poter lavorare, provare a costruirti un futuro. Anche la Turchia, ma complicato riuscirci, e la stessa Dubai, possibile da raggiungere ma costosissima anche per chi è disposto a spaccarsi le reni. Si considerano anche la Malesia e alcuni Paesi africani.
In questa geografia della disperazione, appare paradisiaco un eventuale approdo in Georgia. Il Paese rispetta la legge sui rifugiati, lì i volontari polacchi possono contare su organizzazioni amiche e avvocati specializzati in migrazioni. Sono trasferimenti che costano, i biglietti un onere, e l’organizzazione raschia il fondo cassa, il denaro disponibile è finito, si provvede con altre donazioni volontarie.
L’emergenza delle emergenze resta il cibo: “Ieri, un gruppo di siriani si è ritirato dal confine. Avevano trascorso 5 giorni senza cibo e acqua. Sono tornati a Minsk di sera, col buio. Passata la notte, stavamo cercando cibo, era troppo tardi per ordinare on line con la consegna diretta dei beni di prima necessità, quindi abbiamo inviato dei soldi”.
Per loro, tutto è caro, già al confine devono fare i conti con un mercato nero fiorente, con i soldati bielorussi di frontiera – mai con i polacchi – che offrono l’essenziale ad un prezzo esorbitante. La rete prova anche a ricucire i fili strappati delle famiglie, quelle che si tenta di raggiungere in uno dei Paesi europei. Lo ha fatto per un ragazzo sedicenne che è a Minsk e vorrebbe raggiungere il fratello in Germania, lo ha fatto per un anziano che ha i nipoti in Austria. “Abbiamo imparato ad essere sinceri con loro, a non illuderli. Parliamo tanto con loro, per settimane, per mesi. Lo facciamo al telefono, via internet. Siamo diventati amici, accogliamo i loro racconti”.
Ogni tanto un raggio di luce illumina il lavoro dei volontari, come quando sono riusciti a trasferire in Turchia una famiglia con due bambini ammalati, per farli curare. O come quando sono riusciti ad ottenere il visto per il Lussemburgo per alcune donne somale. Si fa rete a livello internazionale, in Lituania ci sono gli amici di “Sienos”, per una famiglia si è riusciti a trovare una soluzione in Scandinavia.
Famiglie cristiane siriane si pensa di farle arrivare in Italia tramite una organizzazione cattolica. Meno fortunato l’appello per un ragazzo non accompagnato di 15 anni. Hanno bussato a tante ambasciate, compresa la delegazione del Vaticano, senza ottenere una risposta. Storia nella storia, quella del poeta curdo Omed Ahmad. Rifugiato politico perseguito per una poesia sulla libertà, era fuggito in Bielorussia, poi dalla città al confine, perché hanno iniziato a catturare la gente per le strade. Individuato dalla polizia, viveva nel terrore di essere rimpatriato: “Online ha condiviso la sua posizione con noi”. Sono riusciti ad evitargli il rimpatrio, il suo caso è al vaglio della Corte europea dei diritti dell’uomo, a Strasburgo. Dopo giorni difficili al freddo, nella foresta, senza cibo ed acqua, ci scriveva che stava morendo. Lo abbiamo aiutato, ora è in un campo per profughi”. Lì è un inferno, ma almeno è vivo.
Fotografie: bing.com/images