di Nuccio Dispenza
Quell’estate del 1989 fu caldissima a Varsavia. Il rifugio era l’ombra di magnifici alberi, lungo i viali di Parco Lazienki . Le immagini girate da questa guerra, regista di un film dell’orrore che pensavamo di non dover mai più rivedere, fanno emergere ricordi personali, i più intimi e preziosi. Come se fosse urgente rileggere la vita, se mai da qui a poco anche la tua potesse essere minacciata. Pure la tua a rischio, chissà, improvvisamente, come non avresti mai pensato. In balìa della follia, nella tempesta come quella di chi poco più in là si è ritrovato in prima fila, con la fretta di scappare, raccolte poche cose per provare a salvare un minimo della quotidianità, insieme al gatto, al cane, al peluche dei bambini. Le gambe per correre, le braccia per confortare.
Nella rapida sequenza dei ricordi che ti attraversano, inchiodato alla poltrona, con la conta dei morti che sale – uomini, donne, troppi bambini – nella sequenza dei ricordi uno riemerge suggerito da quella foto che arriva da una città di frontiera tra Ucraina e Polonia. Przemysl è da questa parte, in Polonia, con alle spalle la porta dell’inferno. Attraversata dal fiume San, in un inverno che in pace avrebbe cominciato ad annunciare la primavera, la cittadina è solo a 15 chilometri dalla frontiera Ucraina. Si può arrivare anche a piedi se si ha fretta di fuggire ai bombardamenti e al fuoco incrociato, se non si trova posto in treno. Si può anche con un bambino in braccio, magari fermandosi di tanto in tanto, per respirare, per bere, se si ha l’acqua. Poi, i bambini di nuovo in braccio, perché bisogna fare in fretta. Si è lasciato tutto, ma poco importa, quello che conta è caricarsi la vita in spalle, la propria e quella dei cari. La foto racconta delle mamme polacche che hanno lasciato passeggini e carrozzine in fila, in buon ordine, sul marciapiede della stazione. Per le mamme ucraine che arrivano coi bambini in braccio. In questa foto c’è tutta la donna polacca, che nella storia ha vissuto più volte la violenza delle invasioni e ha visto la falce tagliare quasi per intero generazioni di uomini. La morte vestiva ora questa, ora quell’altra divisa: sì, nella storia la Polonia si è ritrovata più di una volta ad essere quasi per intero solo donna, con gli uomini o deportati o sotto terra. E questo è rimasto nel cuore delle donne polacche, si trasmette di generazione in generazione, come accade con gli animali che sanno quel che si deve senza bisogno che qualcuno lo insegni loro, ce l’hanno già dentro. Quella foto, postata su Facebook da un fotografo, Francesco Malavolta, mi ha riportato al mio 1989. Quasi alla fine di quell’anno avremmo visto cadere il muro di Berlino ma a maggio era ancora un sogno.
In Polonia ci arrivai perché nasceva la mia bimba. A Varsavia si viveva la vigilia di elezioni diverse, quasi libere, quelle che ci sarebbero state il 4 giugno. Quasi libere, certo, ma che avrebbero attaccato radicalmente, dall’interno, il sistema che da lì a poco sarebbe poi esploso.
Le vetrine erano ancora quelle di tutti gli altri Paesi della sfera sovietica, latte e pannolini non li avrei mai trovati se non li avessi portati con me in due immensi borsoni. Chi mi accompagnava per le strade di Varsavia e mi ospitava in uno dei palazzi tutti uguali della periferia, non distante dal fiume e da una grande centrale elettrica, mi raccontava che in quei giorni avevano preso a sassate un autobus di turisti russi.
I giochi per i bambini negli spazi verdi, tra un palazzo e il suo gemello accanto. All’angolo, un negozio di vodka, più in là un gruppetto a consulto, attorno al motore di una vecchia auto, che si era fermato e che si provava a far ripartire senza poter contare su un solo pezzo di ricambio. Gli occhi del mondo in quei giorni guardavano altrove, alla Cina di piazza Tienammen. A Varsavia vinceva Solidarnosc. Non sapevamo, non speravamo, ma era l’annuncio di un memorabile novembre, il 9, nella vicina Germania, a Berlino.
Era l’inizio di una fine che partiva da lontano: il ’53 con la morte di Stalin, poi le denunce di Kruscev fino a Gorbaciov con quel suo “E’ arrivata l’ora X..” detto mentre mostrava ai giornalisti il suo mitico Raketa, l’orologio che portava al polso. Credo fosse proprio a Roma, gli chiedevano fin dove volesse arrivare. Il Raketa segnava l’ora della perestroika, spingeva il tempo lontano da Budapest e Praga. Oggi, mentre la storia inciampa rovinosamente nella follia, riemerge il ricordo di un’altra carrozzina, anche quella di una mamma polacca. Volle regalarcela perché potessimo portare a spasso la nostra piccola. Era una carrozzina piccola, piccola, era la carrozzina della bambola della sua bambina. Se ne privava volentieri, ci disse, per la piccola, nei negozi non l’avremmo mai trovata.
In quella caldissima, felice e speranzosa estate polacca, e fino al rientro a casa, quella carrozzina fu preziosa. In città si costruiva il mondo di dopo, lungo i viali di parco Lazienki, un piano suonava Chopin sotto il lucernario dell’antica Aranceria.
Tutto faceva pensare che la storia potesse soltanto andare avanti.