di Vito Bianco
Nelle ultime tre settimane mi è tornato spesso in mente lo sguardo di Pasolini. Mi ricompare all’improvviso confondendosi con quelli dei bambini e delle donne che si vedono in televisione e nelle fotografie di quotidiani e settimanali. Probabilmente l’associazione è incongrua, illogica, oppure appartiene al regno interiore dei sentimenti e degli stati d’animo per i quali il vocabolario non ha parole. Forse il nesso che la fa scattare è la parola “sgomento”. Gli uomini e le donne che si aggirano tra macerie e fuochi o che giungono ai posti di ristoro sul confine polacco dopo una lunga ed estenuante marcia hanno negli occhi uno smarrimento simile a quello che si può osservare in certi ritratti fotografici “rubati” all’ autore delle Ceneri di Gramsci.
Lo smarrimento, lo sgomento degli ucraini viene dall’imprevista distruzione bellica; quello di Pasolini dal sentire con tutti i sensi e con la ragione la silenziosa, e spensierata, distruzione che il neocapitalismo, ossia una particolare forma della modernità, stava attuando sui corpi e le menti degli italiani.
Sgomento e mitezza. Sgomento e ostinazione. Forza e fragilità. Vitalità e disperazione (disperata vitalità). Antico e moderno. “Io sono una forza del passato, /solo nella tradizione è il mio amore” ha scritto in un autoritratto in versi, nel quale però si dichiara “il più moderno dei moderni”.
Pasolini era l’uomo delle contraddizioni, degli opposti che coesistono. E poteva produttivamente esserlo perché era un poeta. Sempre. In ogni campo delle sua versatile e poligrafica attività quel che mai viene meno è l’impronta della poesia.
Che vuol dire stile, approccio, tecnica e modo di procedere tipici di chi è nato all’arte nell’officina della pratica poetica.
Questo imprinting è riconoscibile nei luoghi più diversi insospettabili, per esempio negli scritti polemici, didattici, in quelli “corsari”, in cui la denuncia ragionata trova l’abbrivio nel paradosso, o in un’immagine evocativa fortemente simbolica: le lucciole, il palazzo, i capelli lunghi… E ancora nella maniera personale ma esatta con cui legge i libri degli altri, e nei temi e nel modo pittorico, frontale di impostare le inquadrature nei film, che sono una prosecuzione con altri mezzi dei romanzi, a loro volta un proseguimento, quasi con lo stesso mezzo, delle raccolte poetiche, rispettose della tradizione lirica nazionale ma nello stesso tempo nuove, sperimentali, insofferenti degli stilemi codificati e tramandati di quella stessa tradizione.
Pasolini è stato dentro il suo tempo, ma pure da questo tempo lontano, alieno, estraneo. Termometro dell’attualità e dei mutamenti, immerso come forse mai nessun intellettuale italiano nella vita politica e sociale della nazione, e però, contemporaneamente, distante, chiuso in un suo mondo fatto di visioni cinelettarie e teatrali ora apocalittiche ora nostalgiche di un passato rievocato attraverso il filtro deformante della nostalgia.
Era un uomo senza pace, Pasolini, continuamente sbalzato altrove da un’inquietudine che la prodigiosa, indefessa attività riusciva a calmare solo in parte. E un uomo solo, come disse, condannato alla solitudine dalla lucidità del suo sguardo poetico sulle cose del presente e quelle di un futuro che preconizzava fosco. Uno sguardo sgomento e ostinato che non ha mai smesso di interpellarci.