di Vito Bianco
Qualche anno fa la saggista e narratrice Susan Sontag si è interrogata sull’esposizione fotografica delle vittime di guerra, chiedendosi se la visione ripetuta del “dolore degli altri” ci rendesse più sensibili ad accogliere il sentimento di questo dolore, o se invece la insistita riproposizione di morte e distruzione, di lacrime e sangue non finisse col produrre assuefazione, abitudine, anticamere dell’indifferenza, del distacco che facilmente può diventare fastidio.
La domanda di fondo era, e rimane, quella sul grado di immedesimazione di cui ciascuno di noi è mediamente capace, insieme a un’altra che le tiene dietro: quanto siamo disposti a farci turbare dalle disgrazie altrui? E ancora: “davanti al dolore degli altri” (è il titolo dell’attenta riflessione della Sontag) abbiamo ogni volta la giusta reazione emotiva, o può succedere che il nostro coivolgimento esteriormente empatico nasconda un’adesione meno nobile, abituati come siamo alle finzioni del dolore – soprattutto cinematografiche – con le quali nutriamo il nostro immaginario?
Domande che tornano attuali davanti allo scorrere continuo e quasi senza soste delle immagini filmate nelle città dove da un mese si combatte una guerra che non credevamo possibile, i cui nomi abbiamo rapidamente imparato a pronunciare e a digitare: Kiev, Mariupol, Kharkiv; e Odessa, nome morbido e sognante legato allo scrittore Isaak Babel’, che mirabilmente seppe raccontare nell’ Armata a cavallo la tremenda guerra civile che oppose l’esercito bolscevico ai “bianchi” che si rifiutavano di riconoscere l’autorità del governo rivoluzionario.
Passano sullo schermo i corpi di vecchi donne e bambini, di ospedali teatri e condomini abbattuti da missili e cluster bombs, e con il passare dei giorni quei volti e quelle case e quei morti nelle fosse comuni inevitabilmente ci toccano un po’ meno, diventano ogni giorno più familiari, una familiarità che però attenua la partecipazione e abbassa la corrente di naturale empatia per gli assediati.
La guerra lontana e silenziosa (per noi è un conflitto privo di sonoro, non sentiamo il suono dellle esplosioni, che dev’essere spaventoso: ma di quale conflitto abbiamo sentito il suono?), che entra quotidianamante nelle case, con la perfetta puntualità di un appuntamento con una trasmissione che ci attira per qualcosa che non sappiamo spiegare, può trasformarsi, e forse si è già trasformata, in un innocuo spettacolo del quale siamo interessati, o distaccati spettatori, al quale fanno da cornice le facce serie degli inviati e le chiacchiere in studio sempre più sterili e circolari di generali in pensione e studiosi di geopolitica, mentre qualcuno muove delle pedine su una carta geografica o traccia linee con un pennarello rosso.
Che fine fanno i “disastri della guerra” in questa ripetizione obbligata, in questa sequenza interminabile che si dipana tra paura e speranza, ipotesi e smentite? Direi che diventano sempre più sfondo, colonna visiva di una vita che dobbiamo seguitare a vivere, non potendo fare altro.
E forse servirebbe l’arte di un Goya o cento Guernica originali per incidere in profondità la follia ebete della guerra, il suo indicibile e ritornante disastro in tutta la scandalosa e devastante enormità; servirebbe l’unicità memorabile della trasfigurazione artistica, capace di ridare senso alla didascalicità giornalistica del flusso continuo: la potenza di una visione originale e indiscutibile contro le registrazioni eseguite con lo smartphone dai volenterosi corrispondenti di guerra, che illustrano e tengono in mostra il conflitto ma finiscono, senza volerlo, per banalizzarlo, per farne una cosa “che ci tocca vedere”, che abbiamo davanti tutte le sere e che a un certo punto sparirà, anche dal ricordo, sostituita da un altro clamoroso avvenimento, forse da una furia bellica meno vicina. Per fare in modo di metterci accanto, e non davanti al “dolore degli altri”; e sentirlo, per quanto è umanamente possibile, come nostro.