di Nino Cuffaro
Uno dei più pregiati palazzi di Girgenti, l’ex Collegio dei Padri Filippini, accoglie un’eccellente collezione di pittura di arte antica e moderna. La pinacoteca parte dalla sezione antica, situata a piano terra, con tavole e tele realizzate tra il Quattrocento e il Settecento da fra’ Felice da Sambuca, fra’ Fedele da San Biagio, Giuseppe Cristadoro, Pietro Novelli, Luca Giordano, Vincenzo degli Azani, Vincenzo Camuccini.
Si prosegue, poi, ai piani superiori che annoverano opere dell’Ottocento e Novecento di maestri come Francesco Camarda, Raffaello Politi, Giovanni Philippone, Mario Mirabella e, soprattutto, quella che penso sia la più vasta collezione di quadri di Francesco Lojacono, appartenenti alla collezione della famiglia Sinatra.
Peccato che il museo sia poco conosciuto e ancora meno frequentato e si presenti agli occhi dei rarissimi visitatori come una struttura decaduta e abbandonata a sé stessa. La galleria non dispone di un sito web né di una pagina sui social media. Anzi, per la verità risulta una pagina aperta su Facebook, ma non contiene alcuna informazione sul museo: storia, percorsi, orari di apertura, servizi, recapiti telefonici. Praticamente esiste solo l’intestazione della pagina e alcune foto di eventi svolti nella struttura, soprattutto matrimoni celebrati con rito civile.
Ieri ho potuto effettuare, per soli quattro euro, una visita molto esclusiva: praticamente sono stato l’unico ospite di tutta la mattinata.
Questo è il resoconto di oltre un’ora di osservazione che mi ha consentito di apprezzare i capolavori della pinacoteca e di intristirmi per la gestione superficiale e grossolana di questo enorme patrimonio della città.
La scalinata d’ingresso è sporca all’inverosimile: coperta di polvere stratificata, foglie secche e guano di piccioni, che albergano comodamente sopra i lampioni. Alla reception non forniscono alcuna informazione che orienti e aiuti il visitatore ad apprezzare meglio le opere esposte. Non è disponibile alcuna presentazione del palazzo e della struttura museale; nessuno ha pensato di creare un’audioguida, come avviene in ogni museo che si rispetti; non è indicato un percorso ragionato del museo, anche perché non è stata seguita alcuna logica nell’esposizione delle varie collezioni, situate a casaccio nelle varie stanze.
Cominciata la visita, dopo una breve attesa che ha consentito all’impiegata di accendere le luci e aprire le finestre delle varie stanze (evidentemente sono così pochi i visitatori che gli ambienti vengono resi accessibili solo alla bisogna), subito si nota la mancanza in ogni sala di una presentazione sintetica (magari in italiano e in inglese) con l’indicazione degli autori, del periodo e della scuola pittorica a cui fanno riferimento; mentre quasi tutti i quadri sono privi una didascalia per una migliore comprensione dell’opera.
L’illuminazione è inadeguata. In alcune stanze le luci sono guaste e non si accendono, oppure funzionano ad intermittenza, per cui alcuni angoli sono immersi nella penombra. Al momento dell’aperura del museo, durante al sindacatura di Marco Zambuto, addirittura vennero installate delle luci alogene che provocano cambi repentini di umidità e temperatura con effetti deleteri per le tele. Queste luci per fortuna non ci sono più. Le nuove luci, comunque, quando si fulminano non vengono sostituite. Diverse stanze sono attaccate dall’umidità che ha provocato il distacco di pezzi di intonaco e un paio di cornici di tele del Lojacono sono diventate deposito di calcinacci.
All’ultimo piano, la tristezza del grande salone e del corridoio centrale vuoti, con ancora i chiodi e i segni dei quadri staccati dalle pareti. Sono gli spazi dove erano ospitate le opere del maestro Gianbecchina che rappresentavano, in qualche caso in tele giganti, scene della vita contadina: la mietitura, la spagliatura, la pastorizia, la vendemmia, la raccolta delle olive, i volti duri dei contadini, etc… Un mondo arcaico, dissoltosi nel giro di pochissimo tempo attorno agli anni ‘60, mirabilmente ritratto dall’arte del maestro.
La collezione di Gianbecchina è stata affidata dai familiari, più di dieci anni fa, al comune di Agrigento. Purtroppo, né l’amministrazione di Marco Zamburo né quella di Lillo Firetto hanno perfezionato quell’affidamento con un formale atto di donazione al comune. Pertanto, tre anni fa, gli eredi del pittore, certo con un gesto poco elegante, approfittando delle mancanze dell’amministrazione cittadina, hanno richiesto ed ottenuto la restituzione delle opere. Un epilogo triste ma prevedibile, vista la scarsa cura riservata al museo e la disattenzione del governo cittadino nel definire le procedure di acquisizione della collezione. Così, per insipienza amministrativa, la città ha perso una prestigiosa raccolta. Nella scalinata monumentale del palazzo dei Filippini, però, permangono alcuni manifesti che ricordano la collezione Gianbecchina, quasi una denuncia muta.
La più grande sala al secondo piano, che racchiude nella penombra una decina di autori diversi, si offre in modo decisamente indecoroso: nessuna specifica degli autori dei quadri, neanche l’indicazione del solo nome del pittore. Opere letteralmente ammucchiate in maniera casuale. Fra queste, una serie pregiata del pittore agrigentino Gianni Provenzano, che ritrae scorci del centro storico della città, meriterebbe miglior fortuna. Spesso i quadri sono appesi al muro storti e non allineati, con grossolani chiodi visibili e, in bella mostra, buchi e piccole sbrecciature, segni dei diversi maldestri tentativi di fissare i supporti alle pareti. Messe in un angolo, anonime, quasi accantonate, alcune opere di arte contemporanea: sagome di corpi realizzate con rete metallica. Accostate alla parete, in una stanza con tavolo e sedie (sembra più una stanza per riunioni e non una sala di un museo), se ne stanno ammassate senza alcuna logica, senza alcuna spiegazione, quasi fossero roba vecchia in attesa di essere smaltite.
Poco più in là una statua e un busto malridotti sono posati a terra, come in un ripostiglio.
Meglio sistemate le stanze destinate alla collezione Sinatra (senza considerare l’umidità, l’intonaco staccato e i calcinacci su alcune cornici) e a Raffaello Politi. Ma alcuni disegni di quest’ultimo sono stati inseriti negli espositori in modo maldestro: qualche foglio appare danneggiato e qualcun altro spiegazzato.
Insomma, più che un museo, sembra un magazzino di quadri ed opere varie sistemate a casaccio da qualcuno che proprio non ama l’arte.
Che senso ha parlare di rilancio di Girgenti, se poi una delle più importanti strutture del centro storico versa in queste condizioni? Si prepara in questi giorni la candidatura di Agrigento a città della cultura italiana del 2025. Ma è con questa capacità gestionale e con questo livello di servizi che pensiamo di vincere la gara?
Lo scorso anno è stato approvato un progetto di ristrutturazione del palazzo che, secondo i nuovi orientamenti, dovrebbe accogliere il Museo della Città di Agrigento per raccontarne la storia, dalla fondazione, avvenuta 2.600 anni fa, fino ai nostri giorni. Le opere attualmente esposte dovrebbero essere spostate nel museo civico di piazza Pirandello, da decenni in ristrutturazione e ancora chiuso.
Ben vengano i lavori di ristrutturazione, ma resta intatto il problema della gestione amministrativa e della visione culturale che esprime il nostro ceto politico.
E’ strabiliante l’indifferenza delle amministrazioni cittadine, sia dell’attuale che delle precedenti, verso questa pinacoteca così importante e così poco curata. Nessuno ha mai pensato di nominare un direttore del museo: qualcuno (magari un intellettuale e non un politico) capace di tutelare questo grande patrimonio, manutenerlo, gestirlo e valorizzarlo. Mai uno stanziamento anche minimo (poche migliaia di euro) per le piccole cose: la sostituzione delle lampade fulminate, la riparazione di un muro, piccoli lavori di pulizia e manutenzione. Ma, soprattutto, è mancata e manca l’idea dell’importanza che rappresenta, non solo dal punto di vista turistico, la presenza di un museo nel territorio, in particolare nel centro storico. I musei non sono solo spazi dove si conservano delle opere d’arte, ma sono dei luoghi vitali, custodi indispensabili della storia, della tradizione e della cultura di un territorio, veri e propri punti di riferimento per una comunità. Per questo sono fonte d’ispirazione e di conoscenza per i visitatori che vogliano cogliere l’identità e lo spirito di una determinata realtà locale.
Purtroppo, sembra che i vari sindaci e assessori alla cultura che si sono succeduti in questi anni non sappiano cosa farsene del museo dei Filippini. Non sarebbe certo difficile individuare una persona colta e sensibile a cui affidare la direzione del museo, magari in collaborazione con l’Accademia delle Belle Arti, la Soprintendenza ai Beni Culturali, il Parco Archeologico, le strutture museali eccellenti a noi vicine (penso alla GAM di Palazzo Sant’Anna e al museo di arte contemporanea di Palazzo Riso a Palermo). Senza particolari impegni finanziari, si potrebbe immediatamente definire una esposizione ragionata e guidata delle opere esposte, compilare un catalogo per i visitatori, produrre una audioguida nelle lingue maggiormente parlate, allestire un sito web e una pagina informativa sui social, redigere delle schede multilingue relative ai vari autori e alle loro opere, definire un programma di mostre in collaborazione con le strutture museali siciliane, creare un circuito cittadino con il museo Pietro Griffo e il Mudia. Sono elementi semplici, di immediata comprensione e facilmente realizzabili.
Perché non si fanno?