di Vito Bianco
Non solo Pasolini. Anche Beppe Fenoglio e Luigi Meneghello (per tacere di Bianciardi, che merita un discorso a parte) compirebbero quest’anno cento anni, e parlarne il 25 aprile serve a rammentare che entrambi sono stati scrittori della Resistenza: il primo è quasi consustanziale ad essa, il secondo l’ha ripercorsa in un solo libro, anomalo e spiazzante per umore e ironia.
A metterli in contatto è il rilievo del tratto stilistico, la ricerca costante della musica verbale, e il fatto di muoversi tra due dimensioni linguistiche contigue e comunicanti: italiano e inglese per Fenoglio, italiano e veneto per Meneghello.
Il piemontese, morto ancora giovane, è stato subito consacrato da critica e pubblico, nei limiti riservati a un autore che richiede una lettura insieme avventurosa e desta; il nome del veneto invece, ben giudicato e collocato nel posto di rilievo che gli spetta, non mi pare ricorra con altrettanta frequenza in libreria, dove per esempio un’opera unica come Il dispatrio, storia diaristica di uno straniamento in un altra lingua e cultura, non si trova più da anni.
Meneghello e Fenoglio sono ambedue scrittori della giovinezza, dello slancio ideale tipico di chi fa il suo ingresso nel mondo incomprensibile e pericoloso degli adulti e vorrebbe capirlo e trovarvi posto. Diverso è però l’atteggiamento, la postura psicologica con cui affrontano il passaggio cruciale: in Fenoglio prevale la serietà, il senso del dramma, la percezione acuta del momento fatidico; in Meneghello risalta la presa di distanza, l’understatement, il gioco (anche linguistico), lo sguardo obliquo sulle cose e i fatti e i drammi per quanto duri e innegabili essi siano.
Una questione privata di Fenoglio (1963) è il resoconto teso e tragico di un’esperienza limite all’incrocio di politico e privato, battaglia e sentimento, restituito da una prosa ritmata e cantabile che non concede pause; I piccoli maestri di Meneghello (1964), uscito a un anno di distanza da Libera nos a malo – buffo e scoppiettante amarcord di una spensierata infanzia provinciale negli anni d’oro del fascismo – ha il sapore e il tono di una memoria decantata e perciò allegra e divertita, di un avvenimento speciale della trascorsa verde età ricordato come qualcosa di fantastico e riguardato attraverso la trasparenza colorata di una pellicola che il tempo non ha invecchiato.
L’epica resistenziale di Fenoglio, l’assillo drammatico dei combattimenti e delle vite messe a repentaglio a ogni svolta di sentiero o di mulattiera, nelle mani e nella mente di Meneghello si muta in commedia, in gioco adolescenziale, in prova di iniziazione, in avventura da trascrivere domani nella distanza, come raccomandava Coleridge, la cui celebre Ballata del vecchio marinaio l’anglofilo Beppe tradurrà per il suo editore torinese.
Il langarolo di Alba va sempre all’attacco, insiste tenace verso una meta di vittoria ed eroismo, sente la guerra partigiana come il microcosmo esistenziale che segna la vita intera; per il vicentino di Malo al contrario quella guerra è un episodio, per quanto importante, di una vicenda personale che avrà mutazioni e svolte, ripensamenti e nuovi entusiasmi.
Fenoglio rimane dentro la circonferenza mitica e mitopoietica della Resistenza, ne fa il tema quasi unico della sua narrativa, anche quando prova a spostarsi sul dopo, come nella Malora, e non sapremo mai sino in fondo in che modo si sarebbe reinventato, una volta che si fosse esaurita la fonte primaria della sua ispirazione, quella formidabile spinta originaria.
Meneghello, da parte sua, mosso com’era da vari impulsi e sollecitazioni, se ne libera con un racconto leggero e veloce, l’archivia dandole la forma di una storia di formazione che sembra una favola sospesa sull’orrore e le grida della storia.
I due libri si fronteggiano e rimandano da lontano, si completano e dialogano da sponde opposte ma fraterne (la fraternità della grande letteratura), e formano, con Il sentiero di Calvino (lo sguardo ancora infantile di Pin sulla violenza della lotta) e L’Agnese di Renata Viganò (l’istintiva, silenziosa scelta partigiana della contadina Agnese) un quartetto imprescindibile di opere su quei due anni di lotte: sulle montagne, ma non soltanto sulle montagne. Da leggere o rileggere per tornare a ricordare quel che non dovremmo mai dimenticare.