di Vito Bianco
Se chiudiamo gli occhi la realtà scompare? No, si riduce alla sua dimensione puramente sonora senza quindi smettere di essere reale. E se i sensi ci ingannassero, insinuò il filosofo del dubbio, se quello che chiamiamo mondo altro non fosse che un “sogno coerente”?
È un’ipotesi dal sapore borgesiano che ha guadagnato fascino alla luce dei sorprendenti racconti dell’autore argentino, che la realtà l’amava poco e alla polvere delle strade e alla psicologia preferiva i labirinti della mente e le immaginazioni della metafisica, un “ramo della letteratura fantastica”, secondo la sua ironica definizione.
Se è vero che ogni grande scrittore crea i propri precursori lui, l’imprescindibile Jorge Luis (più che una persona, “una vasta e complessa letteratura”, come scrisse di Quevedo) ha fatto di Platone e Schopenhauer, Zenone e Berkeley, degli involontari precursori della propria originale e ipermoderna opera, per dire quanto misteriose e imprevedibili siano qualche volta le vie che portano alla letteratura: i suoi paradossi, le sue invenzioni proiettano una luce irreale su quelle severe meditazioni ma, di rimando, alle invenzioni regalano una certa qual profondità speculativa, lo sfondo di una importante storia del pensiero.
Nel saggio-racconto “La metamorfosi della tartaruga”, poi in Altre inquisizioni, riprendendo una intuizione di Novalis Borges scrive: “Noi (l’insidiosa divinità che opera in noi) abbiamo sognato il mondo. L’abbiamo sognato resistente, misterioso, visibile, onnipresente nello spazio e fisso nel tempo, ma abbiamo consentito nella sua architettura interstizi di assurdo per sapere che è falso”.
Ai nomi di filosofi citati si potrebbe aggiungere quello di Edmund Husserl, che riparte dal punto in cui Cartesio si era fermato con l’ambizione di concludere e ampliare il suo progetto: fare della filosofia un sapere universale fondato su evidenze apodittiche. Come?
Chiudendo gli occhi. Risollevando il dubbio sull’esistenza del mondo. Sospendendo il giudizio e ricominciando daccapo: “Noi quindi ricominciamo nuovamente daccapo” scrive, “ciascuno per sé e in sé, con la risoluzione di coloro che intendono iniziare in modo radicale a filosofare”. Questo gioco mentale Husserl lo chiama “epoché fenomenologica”, e sarebbe dovuto piacere a Borges, che però, per quel che ricordo, non lo cita mai.
Il mondo non va in vacanza, né si assottiglia se decidiamo di giocare il gioco del filosofo tedesco; si fa però meno ovvio; e lo stesso succede all’esperienza che ne facciamo. La realtà intorno a noi comincia a complicarsi, a perdere il suo alone di naturalità; il familiare diventa un po’ estraneo; nel banale scopriamo sfumature di fantastico, come accade ai personaggi dei racconti di Cortázar e al narratore di Cosmo, giallo parodico sul reale come rete di corrispondenze possibili del polacco Gombrowicz, che cerca un principio d’organizzazione e trova frammentazione e incertezza: “…che cosa cercavo, che cosa per Dio cercavo? Il tono base? La melodia suprema, il nucleo intorno al quale sarei stato in grado di ricostruire, ricomporre la mia storia? La distrazione, però, non solamente quella mia, interiore, ma anche l’altra, quella proveniente da fuori, dalla moltitudine, dall’eccesso, dall’ingarbugliamento, faceva sì che non riuscissi a concentrarmi su niente, un particolare distoglieva la mia attenzione da una altro particolare, ogni cosa era ugualmente importante e trascurabile, mi avvicinavo e mi allontanavo”.
Eccesso e ingarbugliamento (il garbuglio, ‘o gliommaro del gaddiano Ingravallo) sono i caratteri del mondo che lo rendono impenetrabile e decentrato, opaco, scivoloso, contaminato da una “molteplicità di significati” che dovremmo essere capaci di decifrare.
Ma la “distrazione”, non soltanto la nostra, ma “anche l’altra, quella proveniente da fuori”, rende quasi impossibile la decifrazione, ci scoraggia, ci conduce fuori strada, ci fa venire voglia di chiudere gli occhi. E li chiudiamo. Non per far sparire il mondo, ma per ritrovarne le “misure”, gli “interstizi di assurdo” e le segrete corrispondenze di senso e scegliere con cura le parole per provare un’altra volta a dirlo meglio, riuscendo magari solo a fallire meglio.