Qualche anno fa, in occasione delle strambe primarie amministrative tenute da pezzi del centrosinistra con Forza Italia, il candidato vincitore Silvio Alessi divenne protagonista con l’infausta affermazione: “ad Agrigento la mafia non esiste ”. Ovviamente, non la pensano così magistrati e organi inquirenti, a partire dalla Direzione Investigativa Antimafia (DIA), che periodicamente relaziona al Ministro dell’Interno e al Parlamento sulle attività investigative svolte e sui risultati conseguiti nella lotta alle mafie.
Nell’ultimo rapporto pubblicato nello scorso mese di aprile, il quadro che emerge sulla presenza mafiosa e sul controllo criminale del territorio è alquanto allarmante. In provincia sono presenti e radicate ben due organizzazioni mafiose: cosa nostra e la stiddra. La prima maggiormente presente nella zona occidentale, la seconda in quella orientale. A queste storiche organizzazioni criminali’ si accompagnano poi una serie di bande minori, spesso organizzate su base familiare, come le famigghieddre (nel comune di Favara) e i paracchi (nel comune di Palma di Montechiaro), che sono dei gruppi che operano in un ambito territoriale più limitato, ma sempre seguendo le tipiche logiche mafiose, agendo d’intesa e in ruoli di collaborazione o di subordinazione a cosa nostra e alla stiddra.
La consorteria criminale più pericolosa resta senza dubbio cosa nostra, anche per la sua capacità di avere collegamenti che vanno oltre l’ambito provinciale e che la riconducono al vertice e alla cupola mafiosa siciliana. In provincia cosa nostra è organizzata in modo verticistico e ben strutturato in 7 mandamenti (Agrigento, Burgio, Belice, Santa Elisabetta, Cianciana, Canicattì, Palma di Montechiaro) nel cui ambito operano 42 famiglie (sostanzialmente una per ogni comune). Come si può vedere, si tratta di una strutturazione capillare, in grado di garantire una presenza asfissiante sul territorio. Le attività su cui si impernia l’azione criminale sono quelle tradizionalmente prerogativa delle mafie: le estorsioni, rilevanti sia sotto l’aspetto economico che per il non meno importante ruolo di controllo del territorio; il traffico delle sostanze stupefacenti; le mediazioni nel settore ortofrutticolo, uno dei pochissimi settori produttivi della provincia; il condizionamento di appalti e servizi della pubblica amministrazione. La DIA, in particolare, sottolinea “la capacità della mafia girgentina di orientare le scelte degli enti locali per l’aggiudicazione degli appalti pubblici attraverso l’infiltrazione, il condizionamento o la corruzione”. Sempre nella relazione della DIA: “attraverso la leva della corruzione i sodalizi continuerebbero a consolidare una rete di relazioni utilitaristiche volte ad infiltrare le amministrazioni locali per agevolare l’assegnazione di lavori e forniture di servizi, garantendosi in definitiva sia il controllo del territorio, sia l’ampliamento del consenso sociale anche mediante il compiacente aiuto di professionisti e pubblici funzionari infedeli che vanno ad alimentare la cosiddetta area grigia”.
Uno dei dati più indicativi della tendenza all’infiltrazione delle mafie nella pubblica amministrazione e nelle procedure di gare e appalti è costituito dal numero dei provvedimenti interdittivi, volti ad escludere le imprese ritenute vicine alle consorterie criminali dai rapporti con gli enti pubblici. Le interdittive antimafia sono passate a livello nazionale (il dato provinciale non è disponibile, ma si può ragionevolmente supporre che segua la tendenza nazionale) da 279 del primo semestre 2019 a 455 del primo semestre 2021, praticamente con un incremento di oltre il 60%. Un dato che dovrebbe spingere gli amministratori pubblici ad alzare notevolmente la soglia di attenzione verso le infiltrazioni mafiose.
Purtroppo, non sembra che questo stia avvenendo. Nelle ultime elezioni amministrative, il massimo che si poteva leggere nei vari programmi elettorali era un generico e scontato riferimento alla legalità, non supportato da nessuna precisa indicazione di concrete attività amministrative da mettere in campo. Di mafia, poi, non si parlava affatto da nessuna parte, né l’argomento è stato mai affrontato nei vari confronti tra i diversi candidati. Evidentemente, sono tutti d’accordo con Silvio Alessi: la mafia ad Agrigento non esiste, la DIA se ne faccia una ragione.
Eppure, basterebbe sposare il metodo Falcone, seguire i soldi, per accorgersi facilmente di quello che la politica non vuole vedere: appalti di centinaia di milioni di euro con una sola impresa partecipante; concessionari di servizi pubblici (scadenti) inamovibili per decenni; imprenditori discussi corteggiati da potentati politici (vedi il caso di Girgenti Acque); costi dei servizi ai livelli più alti del paese; caos colpevole negli strumenti urbanistici che favoriscono interessi forti.
Ma la politica locale non si interessa a questi aspetti e sembra dispiegare il massimo impegno antimafia attraverso la partecipazione a qualche commemorazione innocua di martiri di mafia (il giudice Rosario Livatino o il maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli), mentre cosa nostra e le altre mafie continuano a gestire indisturbate i loro affari.
Spira una brutta aria ad Agrigento e in Sicilia: un’aria di ritorno al passato, di restaurazione.