La vita nel paesino scorreva lenta. Gli uomini partivano all’alba per le campagne con asini muli e carretti, le donne restavano nelle anguste e insalubri case di pietra e gesso a badare ai piccoli e a sbrigare le faccende domestiche, mentre i pochi commercianti e professionisti della città si muovevano nel ristretto territorio della piazza e soprattutto nei circoli sociali, alla ricerca di compagnia ed affari. Vi erano diversi circoli, ognuno con una ben precisa caratterizzazione sociale ed economica: c’erano quelli popolari dei contadini e degli operai, affollati, per ovvie ragioni, la sera o nei giorni di festa; poi, il circolo dei commercianti, frequentato anche dagli artigiani, dai sensali, dagli intermediari delle granaglie e dagli sparuti imprenditori; infine, il circolo “apolitico culturale”, regno degli impiegati pubblici, dei professori (perlopiù insegnanti di scuola elementare), nonché dei benestanti del paese. Quest’ultimo circolo, situato proprio sul corso principale nel palazzo del municipio (quasi a volerne sottolineare il ruolo istituzionale, come fosse un’articolazione del potere locale), era chiamato in modo spocchioso dai suoi avventori anche “circolo dei civili”, in contrapposizione agli altri circoli, evidentemente considerati incivili in ragione della scarsa istruzione dei loro soci e dell’abbigliamento non certo elegante dei frequentatori. In maniera sprezzante ci si voleva distinguere da chi si spezzava la schiena al lavoro e portava spesso le scarpe ncritati (sporche di terra). Il popolo, la citta dolente, rispondeva alla loro superbia chiamandoli in modo dispregiativo cavallacci: cioè gente prepotente e maligna.
Nel denominare quel consesso civile, però, la “a” privativa era stata premessa al termine sbagliato. Più correttamente il circolo si sarebbe dovuto definire “politico a-culturale”. Di culturale, infatti, nel circolo dei civili non c’era proprio niente. I soci passavano il tempo a giocare a carte o, per distinguersi e darsi un tono, a biliardo. L’occupazione sociale più impegnativa era, comunque, quella di conversare lungamente sui tanti pettegolezzi del momento. L’unica attività “culturale” semmai consisteva nello sfogliare i due giornali regionali e guardare la televisione, allora una delle pochissime presenti in città, vera attrazione del circolo.
Se mancava la cultura, non difettava nei soci un forte orientamento politico di tipo conservatore e reazionario, caratterizzato da un marcato distacco, a volte anche disprezzo, rispetto al popolo dei diseredati, accompagnato dalla consapevolezza e dalla difesa ad oltranza dei privilegi di classe. Quindi, contrarietà assoluta ad ogni innovazione e progresso sul piano dei rapporti sociali. C’era la voglia forte ed esibita di perpetuare una logica di dominio della classe benestante sulla moltitudine disperata del popolo nullatenente, quello dei braccianti, dei jurnatara, dei pedi ncritati: masse affamate, ridotte in miseria, costrette ad un duro lavoro, in una condizione di veri e propri servi della gleba. Tutta la loro grande fatica non era spesso sufficiente a sfamare le famiglie, in compenso consentiva ai cavallacci di campare di rendita e passare le loro comode giornate – al calduccio o al fresco a seconda delle stagioni – stando al tavolo da gioco o da biliardo.
Tuttavia, non mancava nel circolo qualche anomalia, come quella del cavalier Massaro, dirigente della pubblica amministrazione, comunista di ferro, a cui toccava il ruolo di bastian contrario.
Il cavalier Massaro, razionalista, appassionato di fisica e mangiapreti, aveva uno spiccato senso dell’umorismo e uno strepitoso gusto della battuta. Famosa la sua battaglia con l’ufficio anagrafe per chiamare il figlio Elettrone. Mentre l’ufficiale di stato civile mostrava imperterrito la circolare ministeriale che vietava i nomi che non fossero tratti dal calendario dei santi, il cavalier Massaro replicava che, se Guglielmo Marconi aveva chiamato la figlia Elettra, egli aveva tutto il diritto, avendo avuto un figlio maschio, di chiamarlo Elettrone e ribadiva il ruolo fondamentale di questa particella per comprendere la natura della materia. In quell’occasione, però, la spuntò il funzionario dello stato civile del comune e si dovette ricorrere ad un nome più ordinario per il pargolo. Il cavalier Massaro spesso attaccava turilla con gli altri soci, ma prediligeva in particolare la contrapposizione con il ragionier Bruno: un grande proprietario terriero, un bigotto devoto alla chiesa e ai santi, considerato un cattolico praticante (non perdeva una processione), nonostante fosse sprezzante con la povera gente e avvezzo ad atteggiamenti canzonatori verso gli umili.
Invero, il ragionier Bruno non aveva conseguito alcun diploma, ma avendo dimestichezza con il denaro e la contabilità (prestava in modo redditizio il suo denaro: praticamente era uno strozzino) era stato diplomato per acclamazione popolare. Aveva anche fama, costruita da sé medesimo, di essere un gran fimminaru. Nelle giornate estive i soci erano adusi a trascorre le ore lente della canicola facendo capannello sul marciapiede prospiciente la sede. Tra questi, il ragionier Bruno dava spettacolo raccontando le sue imprese amorose, con dovizia di particolari intimi. A sentirlo, praticamente non c’era donna bella e affascinante del paese che non fosse stata sua amante.
Era il periodo delle prime esplorazioni lunari e tutti si chiedevano se ci fossero degli abitanti simili ai terrestri sul nostro satellite. Le opinioni dei soci, scarsamente ferrati in astronomia e biologia, erano le più strambe e non si riusciva a trovare un accordo. Finché il ragionier Bruno, con l’intento di mettere in difficoltà il suo avversario dialettico, tiro fuori con soddisfazione la proposta per dirimere la controversia. Visto che l’amico Massaro è esperto di scienza – disse – chiediamo a lui un parere. Lo scopo, alquanto palese, era quello di mettere in difficoltà l’antagonista di sempre e costringerlo ad una malafiura, colpendolo sul terreno della cultura e del ragionamento. La proposta venne approvata all’unanimità dai soci presenti, che già pregustavano la sfida tra i titani. Così, tutti in gruppo dietro al proponente, si avviarono al tavolo dove il cavalier Massaro leggeva placidamente il giornale. Il ragionier Bruno, con senso di sfida e malcelata soddisfazione, si rivolse all’amico-rivale chiedendogli: “cavalè, lei ca leggi e avi la littra, chi nni pensa di sta facenna di la luna: ci nni su abitanti ddra ncapu?”. Il cavalier Massaro odiava essere interrotto durante la lettura del quotidiano. Tuttavia, capita l’antifona, non si scompose ma, dopo uno sguardo attento al cielo, abbassati nuovamente gli occhi sul giornale, con aria di sufficienza pronunciò il suo oracolo. La scienza, disse – esprimendosi in lingua per distinguersi e marcare le distanze dall’importuno – non ha ancora elementi sufficienti per risolvere il dilemma, ma io, dopo un’accurata osservazione, sono convinto che se abitanti dovessero esserci, questi sarebbero sicuramente tutti di sesso femminile.
Ma comu fa a dillu – replico arraggiatu il ragionier Bruno – si nun si vidi mancu ‘na beata minchia?
Appunto, replico serafico il cavalier Massaro.
Con l’aria perplessa, sentendo odore di tranello, avvampato dal livore procuratogli dall’imperturbabilità dell’avversario, il ragionier Bruno alzò la voce: Appuntu? Appuntu? Ma chi mi veni a significari? Chi voli diri, cavalè? Mi sta cugliuniannu?
Ma quannu mai ragiunè – questa volta il cavaliere passò al dialetto per infliggere il colpo risolutivo – lu me discursu è latinu. Si nun si vidi mancu na beata michia, comu dici lei giustamenti, voli diri ca nun ci sunnu masculi nna luna. Perciò, si ci sunnu abitanti, su tutti fimmini. U capì ora? O ci lu spiegu arrè, ragiunè?
Seguì una risata generale che aveva il sapore di un’ovazione per il cavalier Massaro e una presa in giro cocente per il ragionier Bruno, il cui volto imparpagliato era l’evidente manifestazione della sconfitta appena subita nello scontro dialettico con il nemico politico di una vita.
Partita vinta e avversario annichilito, il cavalier Massaro era soddisfatto di sè, sicuro di aver reso un servizio alla lotta comunista nell’aver mortificato le forze della reazione. Abbandonò la lettura, si alzò dalla sedia e con un cenno di sorriso ed un incedere solenne, ai lati lo sguardo ammirato degli spettatori, si avviò al bancone del bar del circolo per concedersi il giusto premio: la sua solita birra mescolata all’immancabile gazzosa.