di Pepi Burgio
In un giorno ordinario, scadente come tanti altri, durante una passeggiata in bicicletta nel parco cittadino, all’improvviso irrompe nella mente del poeta un’espressione chissà da che evocata; e viene accolta con fervore così come si accoglie una visita assai gradita per quanto inaspettata. Valéry definisce questa condizione “stato di poesia”, “prodotto senza causa apparente, a partire da un avvenimento qualunque”; cioè il passaggio dalla sofferenza che involge chi avverte il dramma della sterilità creativa, alla condizione di chi è infine abitato dalla primaria fisicità, sensualità delle parole. Il poeta custodirà con cura questa rivelazione poiché con essa battezzerà la nuova produzione poetica. Le nevi perenni, embrione armonico prima che significato, è l’espressione genetica che origina il nuovo impegno di Vito Bianco.
Così Leopardi nel Foglio 184 dello Zibaldone: “Molte volte accade che una leggerissima circostanza, quasi movendo una molla della nostra memoria, ci richiami idee e ricordanze anche lontanissime, senza nessun intervento della volontà e senza che i nostri pensieri di allora ci abbiano alcuna parte”.
Inizia bene la nuova raccolta di poesie di Vito Bianco. Essa porge ancora una volta ispirazione autentica, finezza creativa, una robusta formazione letteraria e qualcos’altro che, impalpabile, pertiene al mistero del dire poetico.
Le nevi perenni, che nominano sia l’intero insieme che la seconda tranche di poesie dell’opera (la prima è Luce d’emergenza), muovono da un attacco di singolare efficacia, eloquente della qualità espressiva dell’autore: “Se lo risenti quel freddo/ non si può sbagliare: sa di pianura,/ di alberi piantati per andare più in alto-/ ombra nera, fari arancio sulla doppia corsia,/ sentieri battuti dalle volpi non lontano,/ il ponte sui capelli […]”.
Componimento esemplare, non fosse per quei due gerundi, uno nel titolo, Camminando, l’altro non meno urticante, quasi alla fine, “guardando”, che mal dispongono in un caso e gravano in eccesso l’agilità del verso nell’altro. Si dirà che anche Montale in qualche caso vi ricorre. Che posso farci, a me non sono mai piaciuti. Se torno indietro a rivedere ciò che ho annotato, si impone l’incipit di Distrazione: “A volte non pare vero questo vizio/ ombroso di morire […]”; o quell’altro de Il nostro tempo: “Il nostro tempo si scava la nicchia./ Il soccorso non si annuncia./ L’attesa non fa curve. Piove controvoglia […]”. Acuta trovata, efficace al pari di altre. Ma è il titolo della raccolta che spinge ancora verso qualche riflessione. Le nevi perenni, quasi un ossimoro, da apparente espediente retorico si slarga per alludere a un desiderio di stabilità sempre frustrato, ad un’antinomia che non evolve, all’“anello che non tiene”, direbbe Montale. L’ossimoro, così come per alcuni poeti del novecento, è una delle risorse di Vito Bianco, quando, al pari degli infanti, di chi sogna o dei folli, appronta una visione altra degli uomini e del mondo; una visione sregolata, contraddittoria, sinuosa, che ai più talvolta appare astrusa o assurda, specie quando si spinge presso i confini di un altrove e prova a dire ciò che dicibile non è: “Lingua mortal non dice quel ch’io sentia in seno”.
Quindi “l’inquieta pace” in Da Francisco de Quevedo; o “Non ci manca. Oppure sì. Distrattamente/ E’ difficile la pena/ per uno che non sappiamo/ nemmeno chiamare per nome/ che vedendoci non ci vede./ Per uno che accoglie tutto/ come uno specchio/ ma non conserva niente.”. Ma chi manca? “[…] il ragazzo/ pazzo, scuro di volto, ossuto/ con la febbre/ dolorosa nelle pupille lontane,/ i capelli sudati incollati alla testa”, della intensa e struggente Non l’abbiamo più visto.
C’è poi tanto altro ne Le nevi perenni: l’amara ironia che ricorda Caproni, quel “raramente veramente vivo” di Tea room, e “gli occhi sereni che hanno i vivi/ quando hanno finito di aspettare” di Cinque vecchi signori; poesie che evocano l’amato Vittorio Sereni, la dialettica capovolta di vita e di morte di Dino Campana, nella cornice di quel forte legame con la tradizione avvertito da Pasolini.
Forse di Vito e del suo sorriso potrebbe dirsi ciò che del grande poeta di Luino, e del suo sorriso, hanno detto una volta Fruttero e Lucentini: “il profilo nitido e gentile” si appaia “al suo sorriso sempre un po’ corrucciato, in bilico tra la necessità del sospetto e il desiderio dell’abbandono”. Non so se sia proprio così, ma credo di non dispiacerlo.
I versi di Le nevi perenni sono il riflesso di un’anima malinconica che testimonia inoltre di una spiccata sensibilità civile (vedi Senza casa o Si lasciano andare oppure la magnifica Se ne vanno). Di alcuni versi infine, che dicono di un freddo esistenziale, ambivalente, per approdare presso una sorta di tana claustrofilica (vedi Gli edicolanti), va ricordato quanto una volta ha rivelato Patrizia Cavalli: “La vera e migliore poesia sta in piedi da sola, basta leggerla, non ha bisogno di esplicazioni, analisi, commenti e perorazioni avvocatesche”. In Le nevi perenni tante ne ho viste stagliarsi senza alcun sostegno.