di Vito Bianco
Sospendere l’esecuzione della musica di Beethoven per lasciare spazio alla musica elettronica, ingiustamente ostracizzata, almeno secondo l’opinione interessata (è un musicista che si muove in quel campo) dell’interlocutore di Tano Siracusa? O lasciare che sia il pubblico a scegliere, facendo diventare mainstream quel che prima era la passione di una minoranza, come altre volte è accaduto in passato, ad esempio con il tango e jazz, passato dalle cantine ai teatri? Insomma, avanguardia e rivoluzione contro conservazione e tradizione, il presunto futuro contro il passato che non si decide a farsi da parte? Magari le cose fossero così semplici. E invece succede che l’avanguardia non è sempre rivoluzionaria, o perlomeno non appaia tale; o che talvolta ami travestirsi da retroguardia; oppure può capitare che le sue esibite apparenze sperimentali nascondano o distraggano da una scarsa qualità di risultati, il che vuol dire che la volontà di stare al passo coi tempi, o di anticiparli, non è di per sé garanzia di buone riuscite.
Il caso più interessante, che attiene alla prima eventualità, il rivoluzionario in incognito o rispettoso delle vecchie maniere, riguarda Charles Baudelaire, la cui opera poetica propone contenuti moderni – la metropoli contemporanea, il dissonante, lo scarto ecc. – per mezzo di forme classiche codificate dalla tradizione. È un caso esemplare, che mette in questione la progressione parallela forma/contenuto vigente sino a quel momento. Questa avanzamento in accordo ricomincia in Francia con Rimbaud e Mallarmé. Mi pare che nemmeno Walter Benjamin abbia notato e riflettuto su questa stimolante contraddizione che mette in discussione un assioma critico.
Negli Stati Uniti Whitman e Dickinson, più o meno negli stessi anni, innovano a un tempo contenuto e forma, e in Inghilterra, un secolo prima, Sterne manda all’aria la continuità narrativa minando lessico e sintassi. Per capire la stranezza di Baudelaire dobbiamo provare a immaginare La terra desolata scritta col verso e lo schema di rime della poesia di Shakespeare…Sarebbe sembrato un bizzarro esercizio di stile. I contemporanei di Baudelaire non sembrano notare la stranezza, attirati dalla novità dei contenuti, della materia, scandalosa, cruda e a tratti oscena, mai prima affrontata dalla poesia, se si esclude quella antica, Marziale per esempio, o Catullo.
Se non fosse altamente improbabile si potrebbe pensare a una strategia in stile “cavallo di Troia”. La verità è forse questa: Baudelaire si sentiva ed era l’ultimo poeta di una tradizione secolare attirato dal mondo che aveva sotto gli occhi, il mondo della sua esperienza esistenziale ed estetica, e a questo mondo non poteva che dare le forme ordinate di quella illustre e rispettata tradizione: una forma chiara e ordinata per racchiudere, mostrare ed esprimere una sostanza malsana, oscura e anarchica.
(In Italia, al principio del Novecento, accade qualcosa di analogo, ma a rovescio: una novità metrica – l’endecasillabo “decostruito” di Ungaretti – serve a far passare, e persino a sublimare, contenuti psicologici e poetici del passato recente. In altre parole: l’audacia sperimentale di Ungaretti, anziché abbassare il lirismo, come da sempre fa l’avanguardia, lo potenzia fino al sublime, al distillato estatico: l’illuminazione).
Torno alla musica e chiudo con una citazione: “La grande arte” afferma il musicista canadese, “non procede sempre verso ciò che, analiticamente, potremmo chiamare emancipazione: a me sembra, anzi, che si possano benissimo riconoscere grandi opere composte da artisti considerati dai loro contemporanei come dei pericolosi reazionari. Basti pensare a Richard Strauss, che è in fondo uno dei giganti del Novecento, e la cui evoluzione stilistica, immune dall’assillo schönberghiano di precorrere i tempi, ha un andamento che in ternini storico si può soltanto definire retrogrado” (Glenn Gould, “Schönberg: una prospettiva”, in L’ala del turbine intelligente, Adelphi).