di Vito Bianco
Niente è più bello di scrivere. Niente, tranne leggere. Più bello di leggere c’è solo rileggere a distanza di tempo un libro che ti era molto piaciuto. L’esperienza somiglia al ritorno dopo anni in una casa nella quale sei stato felice: la disposizione delle stanze e la luce sono le stesse, e anche l’odore delle pareti e del legno dei mobili, eppure qualcosa di essenziale sembra essere cambiato: nella casa e in te; in te che torni ad abitare la casa, e nella casa che la lunga solitudine ha fatto più trasparente, profonda e matura.
Nei mesi di giugno e luglio ho rivisitato diversi libri/case. Tra questi il gran saggio di Ivan Illich Nella vigna del testo (sottotitolo: Per una etologia della lettura, Raffaello Cortina 1994) nel quale l’autore mette a fuoco la nascita in cui in europa della nasce la civiltà del “testo libresco” che durerà ben otto secoli, in un momento in cui la centralità del libro comincia a venir meno, insidiata dall’avvento delle nuove tecnologie della comunicazione. I tre quarti dello studio sono dedicati a un’analisi minuziosa del Didascalicon di Ugo di san Vittore, un trattato sulla lettura monastica che sintetizza la cultura di un’epoca e fa intravedere la rivoluzione, tecnica e quindi concettuale, che avverrà alle soglie del tredicesimo secolo.
Uno dei capitoli più problematici e dunque cruciali del denso ma leggibilisimmo saggio di Illich è il sesto: “Dalla registrazione della parola alla registrazione del pensiero”. Dove si legge che la nuova organizzazione del libro (titoli, indici, paragrafi, commenti separati ecc.) è “una espressione, tra le altre, dell’aspirazione del XII secolo a riconoscere e a creare un nuovo tipo di ordine. (…) Questa aspirazione (…) trova la sua espressione estetica nell’architettura, nel diritto, nell’economia e nelle nuove città, ma da nessun’altra parte si manifesta così chiaramente come nella pagina.
La nuova impaginazione, la divisione in capitoli, le evidenziazioni, la numerazione regolare di capitoli e versetti, il nuovo indice generale del libro, i sommari in testa al capitolo che rimandano ai titoli del paragrafo, le introduzioni in cui l’autore spiega come svolgerà il suo ragionamento, sono altrettante espressioni di una volontà nuova di creare ordine”.
Ma se sono espressioni di una volontà, e quindi di una mentalità, viene da obiettare, come si può sostenere che per osservare “l’influenza della tecnologia sulla mentalità”, cioè sulla matrice da cui è scaturito, tra le altre cose, questo modo nuovo di concepire il libro, non c’è esempio più chiaro “della creazione degli indici alfabetici”? Insomma, se il nuovo libro è il frutto di una volontà/mentalità, come può al contempo influenzarla? Daltra parte sembrerebbe ovvio pensare che una nuova tecnologia sia il prodotto, la “forma simbolica” concreta di una forma della mente: il contrario suona illogico.
Nella prima lettura non avevo notato la contraddizione, che se non indebolisce la tesi di fondo del saggio, dichiarata subito nell’introduzione, la rende di certo meno ovvia e lineare. Si può naturalmente immaginare che una volta dato e diffuso il libro così concepito abbia lavorato a consolidare la forma mentis senza la quale non sarebbe nato, producendo effetti in vari ambiti.
Ma nella nota 13, a tener desta, attiva e produttiva la dialettica storica ed epistemologica, Illich aveva chiarito che il suo principale oggetto di studio è una tecnologia alfabetica “che interagisce, nelle forme specifiche degli anni intorno al 1130, con l’universo simbolico dell’Europa nord-occidentale, e la maniera in cui i cambiamenti nella percezione del mondo hanno, a loro volta, favorito e orientato la scelta delle tecnologie. Di questo modo di considerare l’alfabeto come una tecnologia sono debitore a Walter Ong”; e concludeva: “Io cerco la formazione storica del concetto di ‘testo’ ed esamino la discontinuità di tale concetto intorno alla metà del XII secolo”. Di quella discontinuità si nutre ancora, a dispetto degli scenari virtuali della rete, il nostro modo di pensare il mondo in cui viviamo e il nostro futuro.