di Tano Siracusa
Si sta e ci si muove su facebook come i cavalli da carrozza nelle città, con i paraocchi che impediscono la visione laterale e con i paraorecchi che smorzano il frastuono.
Attorno infatti è tutto un parapiglia, una gigantesca rissa, insulti, urla, sgarbi, offese personali, un ‘mondo intermedio’ probabilmente, secondo la definizione di A.M. Iacono, i cui codici, se attivi nella normale comunicazione, trasformerebbero la vita quotidiana in un incubo alla Gomorra. Vi ribolle la rabbia, la frustrazione, la paura, la violenza repressa accumulate dall’inizio della pandemia, e forse anche una oscura voglia di regressione.
È come se fb fosse un ambiente intossicato da una sostanza psicoattiva che eccita la rissosità, la maleducazione, un posto dove le buone maniere vengono praticate soltanto da una minoranza ancora lucida, immunizzata forse dal timore di incontrare per strada il doppio in carne e ossa di un ‘amico’ di fb appena mandato al diavolo prima di uscire. Quello sferzato come non ci si permetterebbe mai discutendoci in un bar. Il signore che non si è mai visto di presenza definito un fascista. Quello che chiedeva qualcosa, una seccatura, e non ha avuto risposta, troppo complicata. Tutte espressioni digitali, disincarnate, di persone spesso civili, educate, rispettabili e rispettate fuori dal recinto dei social.
È impressionante vedere ad esempio come anche sulla pagina fb di Adriano Sofri, i cui interventi sono sempre imperdibili, seguano ‘commenti’ di solito molto intelligenti, colti e informati, ma spesso a rischio di degenerare nella gesticolazione verbale di un Grillo o di uno Sgarbi con la bava alla bocca.
Ci si chiede quanto la comunicazione attraverso i social abbia oltre che imbarbarito anche impoverito il confronto politico in questi anni, e quanto nececessario e difficile sarebbe ricostruire adesso i luoghi dove la fisicità dei corpi torni a essere la premessa di un confronto e una discussione civile, rispettosa anche delle buone maniere, e che abbia per oggetto ciò che si vede oltre lo schermo e fuori dalla finestra.
Come si parla dove ‘si fa politica’? Non nelle stanze ormai vuote dei partiti, ma a Danisinni, allo Zen, a Scampia, nelle cinture operaie dove pochissimi hanno votato a sinistra, nelle periferie che da tempo vedono solo alcuni sacerdoti e quelli del volontariato a darsi da fare, i loro corpi, le parole e gli sguardi scambiati che riempiono il vuoto lasciato dai partiti. Ma rimangono pochi, fra mille difficoltà, nel deserto delle istituzioni.
Fra Mauro, senza il quale la piccola utopia di Danisinni non esisterebbe, parla un italiano colto, raffinato, e gli abitanti del quartiere parlano il palermitano di quella zona della città: non solo buone parole e buone maniere ovviamente, ma tanta determinazione e intelligenza, un lavoro di anni, una sofisticata capacità di mediare fra pragmatismo e immaginazione che stanno trasformando un quartiere emarginato in una comunità.
La maggior parte degli elettori che non ha votato vive in questi luoghi dove neppure la lusinga del reddito di cittadinanza riesce ad avvicinare le urne. Troppa sfiducia, disinformazione, troppo grande il senso di non appartenenza alla comunità nazionale.
Come si relaziona l’animosità verbale dei social con la lingua parlata nel territorio, nelle periferie dove i partiti sono scomparsi e il PD, erede di due grandi parititi di massa, ha perso ogni radicamento? quanto i codici che regolano la comunicazione intossicata dei social rischiano di contaminare la sfera della comunicazione oltre il loro recinto? non tanto nella predilizione per il tono aggressivo, lo sgarbo, la maleducazione, inibiti dal contesto di realtà non mediata, dalla presenza ingombrante delle persone in carne ossa, quanto nella tendenza alla semplificazione, nella mancanza di problematicità, di dubbi, nell’inclinazione a un vociferante sovrapporsi di slogan.
Sperare di orchestrare da fb e da altri social la resurrezione della sinistra trova un ostacolo difficilmente sormontatile nella fondamentale irrealtà della comunicazione che veicolano, quel disinibito flusso di improperi, un ‘rumore’ di rivolta e indisciplina che si autoalimenta di eccessi, frasi fatte di spropositi filtrati da astratti algoritmi – unico argine poroso – cui sfugge la sinuosità del pensiero breve e maldicente. Un’irrealtà che autorizza leggerezza e buonumore. Fra gli attori intossicati nei social anche le peggiori nefandezze sembrano accompagnate da una buona coscienza, da un giustificato senso di irresponsabilità: perché tanto la realtà è fuori. Certo, può capitare che un eccesso verbale sui social possa modificare nella vita reale un vecchio rapporto di amicizia o far scoppiare una guerra, come si è rischiato con Trump. Ma è raro. Forse l’unica cosa da fare sarebbe diffondere fra i volenterosi amici di fb ancora non intossicati l’uso dei paraocchi e paraorecchi per darsi appuntamento in una delle tante periferie del paese, dove un locale vuoto per riunirsi si trova facilmente e costa meno che in centro. Ci si potrebbe finalmente guardare in faccia, spegnere i cellulari, dare un’occhiata alle macerie fuori dalla finestra e cominciare a discutere con gli abitanti su cosa fare, come ricostruire una scuola, un cinema, un giardino, un’idea di futuro, un senso e ripartendo da dove, assieme a chi.